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Ieri & Oggi

di Francesco Durante

 

 

 

 

 

 

Un vecchio (ana)caprese come me s’iscrive automaticamente al club di quelli che: «Bella Capri, eh? Ma avresti dovuto vederla vent’anni fa». È una comprensibile debolezza, anzi: quasi una “legge” universale. I latini la chiamavano laudatio temporis acti, i napoletani ci hanno fatto una canzone intitolata Tiempe belle ‘e ‘na vota (che del resto ha decine di equivalenti in tutte le lingue del mondo: da Those Where the Days a Le bon vieux temps). 
Irrazionalisti apocalittici, siamo ormai abituati a misurare la corsa delle generazioni sul metro di ciò che si perde piuttosto che su quello di quanto si acquista. Senza saperlo, siamo epigoni un po’ maldestri di un illustrissimo caprese d’adozione, il filosofo Walter Benjamin, che vedeva in quell’acquisto la “tempesta” del progresso. Il suo angelo della storia teneva lo sguardo rivolto al passato, ma le sue ali non potevano opporsi al turbine che lo sospingeva verso il futuro. Noi dovremmo conservare il passato della nostra isola e renderlo vivo e presente senza ridurlo a un mero motivo di rimpianto. Capri contiene molte diverse stagioni, che tutte insieme, talvolta anche in modo apparentemente contraddittorio, ne disegnano l’identità. Se il suo spirito saprà continuare ad armonizzarle fra loro, la scommessa dei tempi nuovi sarà vinta.

 

La piazzetta

Nel 1885 la Piazzetta non era luogo di sosta, ma di passaggio: in quella Kleine Deutschland, era più che altro la via obbligata per recarsi alla birreria “Zum Kater Hiddigeigei”, che stava più giù, sul corso Hohenzollern, oggi via Vittorio Emanuele, giusto al di sotto dell’albergo Pagano, oggi La Palma. La Piazzetta incominciò a diventare ciò che ancora è soltanto una quarantina d’anni dopo. Ma, più ancora dell’assenza dei tavolini dei caffè, e soprattutto dei caffè medesimi, ciò che subito colpisce nella foto del 1885 è la pavimentazione della piazza, fatta con quello stesso lastricato dimesso e un po’ incerto, povero e un po’ sconnesso, che, quando c’è, è quello che si ritrova in tante altre immagini capresi d’epoca. Ai miei occhi, quella pavimentazione richiama la lentezza dei passi, magari quelli delle processioni, che qui rapivano lo sguardo di tanti visitatori col loro semplice, nativo, commovente carattere teatrale. Erano un riassunto e un bilancio della vita paesana: una presenza o un’assenza, come racconta tra gli altri uno scrittore americano del tempo, Bayard Taylor, bastavano a dar conto del dell’esito di una relazione, fosse anche d’amore. Ed evoca, ancora, il senso concreto del lavoro, con un’enfasi napoletana verso il suo significato di fatica: quella che si faceva nelle piccole botteghe degli artigiani, quella che occorreva per portar su dal porto una qualsiasi merce.

 

La Grotta Azzurra

Già a inizio Novecento, un grande scrittore come Henry James segnalava l’eccessivo affollamento di turisti tedeschi e americani, accompagnati per di più da petulanti sorelle, alla Grotta Azzurra. Per quanto quei turisti potessero essere numerosi, di sicuro oggi James impallidirebbe davanti alla strabiliante legione straniera che s’accalca sulla soglia del fatidico pertugio. 
La fotografia non cattura l’intera verità fattuale. Può però almeno rassicurarci su un dato che, confrontando queste due immagini, appare incontrovertibile, e cioè sulla circostanza che la Grotta Azzurra era ed è ciò che è sempre stata. Le differenze tra la foto del 1893 e quella del 2011 sono davvero minime, riducendosi in sostanza a un paio di ringhiere/scalette di metallo sul minuscolo imbarcadero, che poi è lo stesso dal quale James osservava la scena e capiva che c’era poco da sperare: gli umani temporaneamente inghiottiti dall’antro, presto, malgrado un’apparenza e fors’anche una speranza di pratica impossibilità, ne sarebbero riemersi, e tutti con un senso di appagata meraviglia. 
Certo manca il sonoro. Vorremmo sapere quali note risuonassero nell’aria in quell’inizio d’estate 1893, e quali parole si sussurrassero sotto i cappelli di paglia. Le canzoni napoletane furoreggiavano già ma, dice James con una punta di rammarico, l’elemento germanico s’era definitivamente impossessato di Capri. È ipotizzabile una curiosa mescola di scanditi accenti “gotici” e corrive melodie partenopee?

 

Via Camerelle

Via Camerelle è fra i luoghi di Capri uno di quelli che, nel corso del tempo, hanno subito le più vistose modificazioni. Queste foto lo documentano senza possibilità di errore. Oggi, chi percorra questa specie di Fifth Avenue isolana potrebbe domandarsi il perché di quel toponimo – Camerelle – e non trovare una credibile risposta. Mancando o, meglio, essendo completamente nascosto ciò che plasticamente gli ha dato origine, vale a dire i resti delle arcate romane su cui correva l’antico tracciato alle falde del monte Tuoro, non è infatti immaginabile la spiegazione più semplice, che poi è quella vera: gli archi, chiusi all’estremità interna dal fianco della montagna, descrivevano lo spazio di una serie di “piccole camere”. Oggi si potrebbe pensare che “piccole camere” siano, come in effetti pur sono, le molte boutique, i bar, gli ingressi dei night club. Un nome così, Camerelle, a me piace comunque anche se smarrito nel vuoto di memoria del presente, giacché imprime un curioso twist dialettale, e perciò stesso “antico”, a un luogo che paradossalmente, pur essendo fra i più celebri della celebre Capri, mostra tutte le stimmate caratteristiche dei “non luoghi”, e sia pure di quelli d’alto bordo. Nella parola Camerelle resiste tenacemente un accento popolaresco. Suona come i nomi di certi vecchi vicoli napoletani, e ispira la nostalgia di un’antica grazia. Un sorriso che ci mette un attimo a diventare un ghigno. Del resto, la vita stessa è un succedersi di ghigni e sorrisi.

 

Marina Grande

Sulla scarsa rena della Grande Marina, ad Alexandre Dumas capitò d’imbattersi nella figura dormiente dello “scopritore” della Grotta Azzurra, l’uomo più benemerito dell’isola di Capri dopo l’imperatore Tiberio. Il barcaiolo-pescatore Angelo Ferraro s’era “appapagnato” al pigro sole meridiano in una giornata come tante, trascorsa nell’attesa che gli fosse accordata la pensione che credeva di meritare per aver di fatto aperto la nuova elettrizzante stagione del turismo caprese. Le due foto ci dicono del molto tempo che è passato, e che si misura grazie a due infallibili indicatori: il rilievo del costruito e il numero delle barche. Rispetto al 1885, il borgo della Marina non è più l’esile cornice di case allineate sulla riva del mare, ma è cresciuto arrampicandosi verso la collina alle sue spalle. E ai pochi gusci di noce ancorati a un passo dagli scogli s’è sostituita una popolazione di natanti che oltretutto, come si vede, ne richiama un’altra di autoveicoli. Può fare una certa impressione, non c’è dubbio. Ma, se a Capri molte cose possono esser dette “fatidiche”, questa è senz’altro “fatale”. In ogni caso, resta l’invincibilità di una certa immagine, qui data dal profilo della montagna verso Anacapri. S’è conservata per quello che il tempo l’ha fatta diventare: un classico. Tutti possono ancora esercitarsi a cercare un termine di paragone, e opinare se quel profilo ricordi quello di una bella donna o, magari, il muso di un coccodrillo acquattato nell’ombra.

 

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