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Il bianco venuto dal mare

È la Falanghina. Un vino dal gusto inconfondibile che si abbina alla perfezione ai piatti di pesce

di Luciano Pignataro

 

 

 

 

 

Questa uva è uscita dalla spuma del mare come Venere portata dai coloni greci in cerca di fortuna e ricchezza nelle regioni dove prima tramontava il sole.

Qui, alle falde del Vesuvio, nella terra girata e rigirata con violenza dalla furia scatenata e incontrollabile dei vulcani quando l’alba dell’uomo ancora non era iniziata, ha trovato il suo habitat naturale oltre che il battesimo, perché il suo nome deriva proprio dal termine falanga, ossia dal palo piantato nel vigneto per far crescere la vite in altezza. Siamo dentro il bicchiere bianco di Capri, perché la Falanghina è l’anima della doc più fascinosa della Campania oltre che essere diffusa tra i contadini e ben utilizzata sull’Isola dai due produttori impegnati ad etichettare: l’antica Vinicola Tiberio e La Caprense.

In altezza con la falanga, dicevamo, perché il sistema tradizionale greco era ad alberello, ossia la vite cresce senza alcun sostegno, tipico delle zone più calde e ancora oggi diffuso soprattutto in Puglia e in Sicilia. Una tecnica utile nei climi asciutti, quando la pianta si conserva meglio più vicina al terreno, controproducente se usata invece in un territorio umido o comunque più temperato perché compromette l’integrità della frutta.

 

Misteriose origini

La sua origine resta misteriosa perché solo da poco sono stati fatti studi di un certo spessore scientifico. Sinora infatti a disposizione dei curiosi e degli appassionati c’erano solo citazioni raccolte qua e là attraverso i secoli e chiacchiere commerciali stampate sulle etichette. Un lavoro molto dettagliato portato avanti dall’assessorato regionale all’Agricoltura e dall’Università di Portici, coordinato rispettivamente da Michele Manzo e Antonella Monaco, ha classificato con precisione almeno due tipi, assolutamente diversi, che hanno in comune solo il nome. La falanghina diffusa in provincia di Napoli ha diversi sinonimi: fallanghina, falanchina, fallenghina, falernina e uva falerna a Caserta, biancazita nella Costiera Amalfitana, ma questo termine, altra recente scoperta, indica ancora un altro tipo di uva. Il grappolo di questa falanghina partenopea, distribuita prevalentemente sulla fascia costiera che va da Minturno sino ad Amalfi, ha una forma cilindrica, senza ali, mentre l’acino è arrotondato. Quella di tipo Benventano ha invece un grappolo conico piramidale e l’acino è ellittico corto.

La Campania è terra di bianchi nonostante le balle che si raccontano negli ultimi tempi e nonostante le eccezioni come il Taurasi, il Taburno, il Falerno e qualche prodotto di punta: sono solo enclave rossiste.

La falanghina è forse il suo vitigno autoctono più diffuso tra i cento che questa regione può vantare dopo che, siamo all’inizio degli anni Ottanta, fu ripresa da un gruppo di pionieri appassionati ed etichettata in purezza per la prima volta da Leonardo Mustilli, Angelo Pizzi e Gennaro Martusciello, tre della pattuglia di pionieri cui abbiamo fatto cenno. Da allora è partita la riconquista agricola e commerciale del territorio regionale dopo alcuni decenni di oblio: della possibilità di migliorare le tecniche di coltivazione di questa uva a bacca bianca aveva dissertato a lungo il cavaliere Giuseppe Frojo in una saggio pubblicato nel 1876. La troviamo infatti ben insediata dal vulcano di Roccamonfina sul confine tra Lazio e Campania fino al Sannio, al Cilento, perfino in Irpinia dove è stata piantata da una quindicina di anni nonostante sia il terroir per eccellenza del fiano di Avellino e del greco di Tufo.

Ma la sua culla ideale è nel Golfo di Napoli, tra l’area dei Campi Flegrei, i Camaldoli, il vulcano degli Astroni e infine Capri che ha sempre avuto un traffico commerciale molto intenso con la terraferma anche se siamo lontani dalle proprozioni raggiunte a Ischia dove c’erano almeno tremila ettari di vigneto per una economia quasi tutta basata sulla viticoltura.

 

Un Doc versatile

La falanghina, la Falanghina: come per la Barbera, anche in questo caso il femminile si usa sia per l’uva che per il vino. Il suo gusto è inconfondibile perché ha un naso floreale molto ricco, al palato è sicuramente fresca, minerale, mai ruffiana perché difficilmente raggiunge quella morbidezza paciosa ed esagerata richiesta oggi dal gusto internazionale. Il bianco è molto versatile grazie alle sue caratteristiche, dal coloro giallo paglierino, a volte giallo paglierino carico, si abbina bene a tutta la cucina di pesce della costa e a quella vegetariana di tutta la regione, sulle carni bianche, sui formaggi. Dal crudo dei frutti di mare alle zuppe con i funghi lo spettro è abbastanza ampio e pochi vini hanno questa possibilità così ampia di utilizzazione a tavola. La sua nota acida le consente inoltre una buona evoluzione nel corso del tempo anche se non ci sono sinora vinificazioni spinte sull’invecchiamento.

La tradizione isolana, conservata anche nel disciplinare della denominazione di origine controllata (doc) celebra un abbinamento classico: la falanghina è spesso unita in blend con la biancolella, altra uva tipica del Golfo che ha il suo terroir ideale ad Ischia e in Costiera Amalfitana. Da dove nasce questa consuetudine caprese? Il motivo è da ricercare nella necessità di compensare l’eccessiva acidità dell’una con la morbidezza e il tono tranquillo e pacato dell’altra. Proprio come sul Vesuvio la Falanghina è compensata dalla Coda di Volpe nel blend bianco più famoso d’Italia all’estero, il Lacryma Christi.

Naturalmente i tempi in cui era necessario oltre che indispensabile fare ricorso a questi sistemi appartengono al passato, ma è comunque interessante osservare come le più antiche tradizioni contadini di Capri riescano poi a conservarsi e soprattutto a migliorare anche quando in cantina arrivano enologi e tecniche moderne di vinificazione. Grazie alla grande rivoluzione vitivinicola meridionale e campana la Falanghina ha molte carte da giocare: affronta sicuramente meglio del Fiano e del Greco la lavorazione in legno, mentre in appassimento acquista una complessità aromatica di notevole spessore senza cedere eleganza, in una parola non si ha in bocca quella sensazione di frutta cotta tipica dei passiti del Sud. Ma la sua espressione migliore resta quella ottenuta dalla vinificazione in acciaio, semplice, allegra, scanzonata, come una bella ragazza senza trucco, capace di regalare abbinamenti perfetti sulle insalate di polipi, seppie e calamari, sul pesce al forno, alla griglia e al sale, sullo spaghettino alle vongole e ai frutti di mare in bianco con vista sui Faraglioni.

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