04Il levriero di Curzio

Aveva il pelo bianco e si chiamava Febo. Per lo scrittore Malaparte era un amico straordinario

di Ciro Sandomenico

 

 

 

 

 

Chi fosse Curzio Malaparte lo sanno in molti e chi frequenta Capri certamente non ignora l’esistenza di Casa Malaparte che si stende, come rossa cresta sulla testa di un gallo, sul promontorio di Punta Massullo, una propaggine rocciosa sul versante sudorientale della costa dell’isola, essa stessa scenario nello scenario straordinario dominato dalle rocce possenti dei Faraglioni e dal rassicurante scoglio del Monacone.

Chi fosse Febo lo sanno in pochi, anzi pochissimi. Febo era un cane, il cane di Malaparte. Febo, o meglio Febo II (vi era stato Febo I, un barbone) era un levriero di Stromboli di taglia media, pelo bianco e corto, muso lungo; nelle sue vene scorreva sangue misto. Febo non poteva vantare, infatti, alcun pedigree, la purezza della sua razza si era dissolta nell’accoppiamento bastardo tra cani abbandonati. L’incontro tra Curzio e Febo avvenne a Lipari dove Malaparte stava scontando il confino inflittogli da Mussolini per aver calunniato e diffamato un ministro del governo in carica, Italo Balbo. Febo colmò parte della sua malinconica solitudine durante il confino, tra la fine del 1933 e l’inizio del ’34, poi Malaparte lo portò con sé, prima a Ischia, poi a Forte del Marmi e, infine, a Capri.

 

I più amati

Malaparte amava moltissimo i cani. Nella graduatoria delle sue passioni, quella per i cani precedeva quella per le donne e credeva più nell’amicizia con i cani che in quella con gli uomini. Biancamaria Fabbri, la giovanissima milanese che fu la prima donna a convivere con lui per qualche anno, scrisse: «Malaparte non amava il suo prossimo, amava solo chi si occupava di lui e dei suoi cani…» e Giordano Bruno Guerri, il suo vero biografo, aggiunge: «…li amava con un trasporto e una dedizione che non mostrò per gli uomini. E non era un attaccamento di tipo estetico e decadente come quello di D’Annunzio per i suoi celeberrimi levrieri. Malaparte amava i suoi cani perché erano, diceva “come me”. Una bestia con la quale si vive, diventa a poco a poco come l’immagine di noi stessi, un’immagine talvolta appannata, sbiadita, talvolta accentuata. Diventa come una copia di noi medesimi, uno specchio che riflette di noi un’immagine degradata, avvilita: è, in una parola, il nostro specchio interiore; specchio nel quale riconoscere la parte migliore di me, la più simile, la più pura, la più segreta». E per Febo II, che fu il cane più importante della sua vita, ebbe espressioni di affetto incredibili e straordinarie. «Se io non fossi un uomo, e non quell’uomo che io sono, vorrei essere un cane per assomigliare a Febo. Non ho mai voluto tanto bene a una donna, a un fratello, a un amico, quanto a Febo. Era un cane come me. Era un essere nobile, la più nobile creatura che io abbia mai incontrato nella vita. Non v’è momento nella mia vita di cui serbi un ricordo altrettanto vivo e puro quanto del mio primo incontro con Febo».

Febo era considerato una persona di famiglia al punto di essere divenuto un Malaparte: Febo Malaparte. Curzio diveniva insistente con i suoi tanti amici pittori perché facessero un ritratto al suo Febo e quando era lontano da casa per i suoi impegni giornalistici e non poteva portarlo con sé inviava delle cartoline al su cane: «A Febo Malaparte, Capri». E perché Febo divenisse quasi “biologicamente” un cane “come me”, nel senso più compiuto del termine, Malaparte volle che tra loro vi fosse un battesimo umorale: si stese quindi sul corpo supino dell’animale perché potesse impregnarsi dei suoi odori. Febo avrebbe dovuto sentirsi Curzio, come questi si sentiva Febo. Questa equivalenza veniva rispettata anche la notte, consentendo a Febo di dormire nello stesso letto di Curzio.

E Curzio, in occasione di compleanni o altri anniversari, faceva apparecchiare sul pavimento con tovaglie e stoviglie delle grandi occasioni e al momento del pranzo si sdraiava per terra accanto a Febo e mangiava la bistecca assieme a lui.

Febo fu accanto a Curzio negli anni in cui dalla roccia del promontorio di Punta Massullo, a Capri, venne fatta emergere la “Casa come me”. Aveva anche imparato a riconoscere uno ad uno i gabbiani che sorvolavano il luogo o che sostavano numerosi lungo la costa e sull’isolotto del Monacone, ed i gabbiani avevano capito chi era il vero padrone di quella casa e di quel promontorio, quando dall’alto del cielo assistettero ai funerali solenni che gli vennero tributati e il bel monumento funebre che gli era stato innalzato.

Curzio non dimenticava, passando davanti alla sua tomba, di lanciare un “bau-bau” di saluto al suo amato Febo. Ed era un “bau-bau” riconoscibile perché Malaparte, che aveva avuto tanti cani, dai bastardini Pelledo e Leone degli anni giovanili, ai tre bassotti del dopoguerra, Pucci, Cecco e Zita, al barbone Febo I, aveva imparato a dialogare con loro abbaiando, e abbaiava dalle finestre degli alberghi, dovunque si trovasse in giro per il mondo, per richiamare l’attenzione dei cani che avrebbero potuto sentirlo.

 

Per sempre a Capri

Tanta fu l’identificazione con Febo, il “cane come me”, che Malaparte intese affidare a lui, quasi erede diretto, la testimonianza della sua stessa presenza a Capri. Febo sarebbe rimasto lì in eterno, mentre Curzio sarebbe stato sepolto in un luogo lontano da Capri, nella sua Toscana: sulla cima del colle Spazzavento, vicino a Prato, così come aveva lasciato scritto, «Vorrei aver la tomba lassù in cima allo Spazzavento, per poter sollevare il capo ogni tanto e sputare nella gora del tramontano».

Arrivando a Capri e imboccando dalla terrazza di Punta Tragara il viottolo del Pizzolungo per intraprendere una delle più suggestive passeggiate dell’isola, dopo poche centinaia di metri ed essere giunti a Villa Masgaba o Villa Monacone e passati davanti al cancello di Villa Romita e accanto alla famosa Casa Solitaria, quasi a picco sulla costa, superato qualche saliscendi e alcune gradevoli sinuosità della strada, appare, dopo le gigantesche torri rocciose dei Faraglioni, la sagoma rossa di Casa Malparte: i richiami della memoria inevitabilmente si affollano e non è agevole porre i ricordi in fila.

Ma lo spirito è a volte più esigente della mente e non disdegna di sconvolgere la cronaca, se non la storia, per il proprio gaudio. A noi piace, pertanto, pensare che Curzio Malaparte non scelse la vetta Spazzavento, presso Prato, come sua residenza estrema, ma preferì che i propri resti umani fossero serrati nella dura roccia a Punta Massullo, a Capri. Così, levando di tanto in tanto il capo, Malaparte non lo farà per «sputare nella gora del tramontano», ma per lanciare il suo sguardo vivido e irrequieto su quel paradisiaco scenario esteso da Punta Campanella alla collina di Matermania, allo Scoglio delle Sirene, con i maestosi Faraglioni e l’isolotto del Monacone in primo piano, che con arrogante ironia affermò: «tutto quello l’ho disegnato io». Se questa fu solo una spavalda espressione per scuotere la curiosità impassibile del generale Rommell, suo ospite, la “casa” l’aveva realmente costruita e in parte ridisegnata lui stesso.

Palpando, una ad una, le pietre edificatorie che avrebbero portato la casa fuori dalla roccia dura della piccola penisola di Punta Massullo, e per poterla battezzare “Casa come me”, lo scrittore-architetto volle ripetere il rituale compiuto con il proprio cane Febo II.

Qualcuno, dall’udito più fine e più sensibile, probabilmente avrà sentito nella notte caprese l’abbaiare rabbioso di Febo contro visitatori profani decisi a violare il silenzio denso e colmo di ricordi di quella “poca terra” in cui Malaparte visse momenti di surreale creatività.

Febo, nelle notti di luna piena, solleverà la testa e ponendosi ritto sulle zampe posteriori, abbaierà con forza, e all’unisono Curzio solleverà il capo dal suo giaciglio, nella lontana Prato, sulla cima Spazzavento per godere, con gli occhi fedeli di Febo, di quel divino panorama di Capri che egli stesso disse “aver disegnato”.

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