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Segreti e misteri della Certosa

Convento, prigione e museo. 
Il destino controverso di un’architettura che ha legato il suo nome alla storia di Capri

di Bruno Manfellotto

 

 

 

 

Come Villa Jovis – appollaiata lassù a picco sul mare, sul costone di roccia più lontano e inaccessibile dell’isola – esprime e riassume la stagione romana di Capri, così la Certosa – schiacciata laggiù, nella valle che si affaccia su Marina Piccola, pressocché invisibile dal mare – ne testimonia il lungo periodo monastico e medievale. L’una e l’altra, poi, sono vestigia imponenti che raccontano di antichi splendori, di ricchezze, intrighi e misteri. E come l’una, anche l’altra prima ha esaltato, poi divorato e distrutto se stessa e gli uomini che l’avevano fortemente voluta. Accomunate da un singolare destino.
La Certosa di San Giacomo deve la sua esistenza al rampollo di una nobile famiglia caprese, Giacomo Arcucci, conte di Altamura e di Minervino, sposato a Margherita Sanseverina, segretario particolare della regina di Napoli Giovanna I d’Angiò e pronipote di un Eliseo Arcucci che cent’anni prima aveva servito il re Federico II di Svevia. Si racconta che a spingerlo all’impresa – condotta a termine tra il 1371 e il 1374 – sia stato un voto acceso con l’apostolo, suo santo protettore. Insomma, una monumentale fondazione per grazia ricevuta: la nascita di un figlio maschio a lungo atteso e desiderato. Non si conoscono i nomi degli architetti che lavorarono all’edificio, ma appare evidente che il modello di riferimento sia la Certosa di San Martino a Napoli. L’abilità di Giacomo, però, non fu solo nell’affidare l’opera a grandi maestri, ma anche nel coinvolgere nel progetto la regina in persona. Che vi destinò ingenti finanziamenti, molti terreni di rendita e alcuni privilegi che presto renderanno i monaci ricchi e anche potenti e la loro casa più simile, nella fantasia dei poverissimi abitanti di Capri, a un palazzo reale che a un eremo. L’area destinata alla costruzione – nella verde valle tra il Castiglione e Tuoro – non era stata scelta a caso. Intanto era una delle poche rimaste escluse dalle fabbriche imperiali, le grandi ville dell’epoca romana. Poi era sufficientemente ridossata per non attirare le voglie delle navi saracene che spesso incrociavano nelle acque dell’isola. Dagli stretti camminamenti e dai piccoli terrazzini del complesso, poi, l’occhio poteva spaziare dalla baia di Marina Piccola ai possenti Faraglioni: perfino poco rispetto ad altri panorami straordinari – come quello della superba Villa Jovis – ma adatto a un luogo di meditazione. I certosini che avevano la fortuna di vivere lì erano davvero pochi, più o meno una quindicina. Ma in compenso si trattavano benissimo. Ciascuno di loro poteva disporre di due-tre famigli, servitori che li sollevavano da ogni fatica. Il loro peso sull’isola fu da subito enorme e crescerà sempre di più grazie ai privilegi ottenuti: potevano per esempio riscuotere le tasse sui prodotti della terra e della pesca; e s’erano conquistati il diritto a incamerare i beni dei morti senza eredi. Un sistema automatico per arricchire anno dopo anno il proprio patrimonio. Da lì uscivano anche ricercatezze apprezzatissime, come le ricottelle di latte di pecora e il liquore certosino (simile alla Chartreuse francese) che mandavano in brodo di giuggiola i grandi della corte napoletana; ma soprattutto da quelle celle i monaci controllavano l’economia agricola dell’isola poiché la maggior parte dei campi coltivati appartenevano a loro. E dunque erano ricchi, molto di più del clero e degli stessi vescovi che quindi poco li amavano, del resto sinceramente ricambiati. Più che certosini erano diventati maggiorenti locali tanto è vero che anno dopo anno, secolo dopo secolo, papi e re ne confermarono, e anzi aumentarono, i privilegi. 
Rendendoli sempre più facoltosi. Quando per esempio, a metà del Cinquecento, il turco Dragut assaltò Capri saccheggiando e incendiando la Certosa, i monaci non avranno difficoltà a reperire i fondi necessari a ristrutturare e ad allargare l’edificio. Insomma, per la popolazione – che non li vedeva di buon occhio anche perché, come scrisse al Papa un vescovo di Napoli, vietavano loro di vendere i prodotti della terra per non avere concorrenza – i monaci vivevano più o meno come ricchi signori, addirittura se la spassavano a spese loro. Leggende? Esagerazioni? Forse. I documenti, però, oltre a quella disperata lettera al Papa, rimandano anche la testimonianza di monsignor Pellegrino, vescovo di Napoli a metà del Seicento, che si vide costretto addirittura a indire un sinodo caprese per rimettere ordine in un clero disordinato e riottoso, senza regole né freni.
Alla fine dei lavori sarà emessa una sorta di bolla episcopale con la quale si faceva divieto di indossare tonache sbottonate sul petto, calzare scarpe con lacci colorati, fare bagni di mare se non acconciamente vestiti, frequentare negozi che assomigliavano a taverne e di accompagnarsi a donne. Il che ci lascia immaginare allegri fraticelli che si tuffavano mezzi nudi nelle acque di Capri in compagnia di belle fanciulle… Chissà se tra costoro c’era anche qualche certosino poco incline alla clausura. E poi c’è la testimonianza di Jean-Jacques Bouchard, un erudito e antiquario francese che sbarcò sull’isola a metà del Seicento – e che può essere dunque considerato a buon diritto il primo turista di Capri – che visitò anche la Certosa trovandola bellissima e descrisse i suoi abitanti ospitali sì, ma anche antipatici, arroganti ed egocentrici. Il quadretto, che potrebbe apparire impietoso, oltre che impressionistico e superficiale, troverà però conferma in un incredibile episodio di pochi anni dopo, quando Napoli e il sud, e dunque anche Capri, divennero preda della peste. La terribile epidemia colpì migliaia di persone e falcidiò il clero che si prodigava nell’assistenza ai malati. Nella situazione di emergenza, il vescovo di Napoli chiese aiuto a chi poteva, e dunque anche al priore della Certosa di San Giacomo che per tutta risposta, e con la scusa delle ferree regole della clausura, si chiuse dentro con i suoi frati per settimane e settimane. Fu tale l’indignazione dei capresi per questo modo di fare che alcuni cadaveri vennero letteralmente lanciati al di là del muro di cinta della Certosa nella evidente speranza che qualche monaco ne venisse infettato. Invano. Cinque mesi dopo, quando l’epidemia sarà passata, il priore riaprirà finalmente le porte. Pronto a incamerare i beni e le proprietà di molti dei 1.700 capresi morti nel frattempo di peste… Acquisizione dopo acquisizione, la Certosa arriverà a possedere l’intera valle di Tragara e grazie alla coltivazione dei terreni che si affacciavano lì e altrove finirà per conquistare il monopolio dell’agricoltura dell’isola, compreso olio, vino e bestiame. Poco disponibili e poco amati, i frati saranno invece per sempre grati e devoti al loro benefattore. Quando infatti sul capo di Giacomo Arcucci, proprio come su Tiberio, cominciò ad abbattersi la mannaia della malasorte e la sua regina fu imprigionata da Carlo III e poi uccisa in una cella del castello di Muro di Lucania, a lui – spogliato di ogni potere e di ogni ricchezza – non restò altro da fare che chiedere aiuto agli amici certosini. Che lo accolsero a braccia aperte, pagarono il cospicuo riscatto per liberare dal carcere il figlio Iannuccio, lo ospitarono per anni e quando questi morirà gli organizzeranno un sontuoso funerale degno di un imperatore. La Certosa di San Giacomo, a dispetto del rigore formale dell’architettura e della proverbiale semplicità dei monaci, resterà ricca e bella per 434 anni. Fino al 18 ottobre 1808, quando i soldati di Gioacchino Murat, lasciati i loro vascelli alla fonda dinanzi agli scogli di Anacapri, conquisteranno l’isola e ne cacceranno le guarnigioni di sir Hudson Lowe (che qualche anno dopo avrà però modo di vendicarsi prendendo in custodia a Sant’Elena lo sconfitto Napoleone). I prigionieri inglesi saranno ammassati nel cortile della Certosa e poi da qui generosamente lasciati andare via. Poco dopo i beni dei certosini saranno confiscati, i monaci dispersi e i loro documenti distrutti o venduti a peso. Poco prima che lo scempio si consumasse, era crollata la torre d’avvistamento che svettava sulla Certosa; così come, subito prima della morte dell’imperatore Tiberio, era caduta la torre del faro di Villa Jovis. Dopo quel giorno terribile, gli anni d’oro resteranno solo un ricordo lontano. Nemmeno la restaurazione voluta nel 1815 dal re Borbone Ferdinando I varrà a riportare la Certosa indietro nel tempo: diventerà carcere militare e i terreni che le appartenevano saranno venduti all’asta (ma non li compreranno i capresi) per poi trasformarsi via via in caserma, ospedale, asilo per reduci e ancora prigione. Ai primi del Novecento fu messa all’asta dallo Stato italiano, che non se ne voleva accollare i costi di gestione, e stava per finire nelle mani di una società di albergatori che non vedeva l’ora di trasformare le celle di rigore in stanze per turisti: ma le proteste di personalità della cultura convinsero il ministero della Pubblica Istruzione a mettere sotto tutela il complesso. Più tardi diventerà dependance di ufficiali americani che si ritempravano dalle fatiche della seconda guerra mondiale; e più avanti ancora chiesa, liceo classico, sede di uffici della pubblica istruzione e oggi biblioteca comunale, museo delle opere di Karl Wilhelm Diefenbach, custode di due statue emerse dalle acque della Grotta Azzurra e domani, come si spera, sede di un futuro museo di tutti i reperti archeologici dell’isola. Comunque, per chiunque capiti a Capri, la Certosa è meta d’obbligo, proprio come Villa Jovis.
Nell’edificio a due piani che si incontra alla sinistra dell’incrocio del viale d’accesso con quello della Certosa, aveva sede la farmacia che forniva le medicine anche agli abitanti dell’isola. In quello a destra, invece, sorgeva la chiesa delle donne fuori clausura. Nella grande sala centrale allestì il suo studio il pittore Diefenbach che solo qui trovò gli spazi adatti alle sue colossali tele. Sul portale della chiesa spicca un affresco trecentesco con la Vergine e il bambino: ai lati, un San Bruno che poggia la mano sulla spalla della regina Giovanna in preghiera, e un San Giacomo con la mano sulla spalla del conte Arcucci che offre alla Madonna il modello della chiesa.
Il viale d’ingresso prosegue in un cortile chiuso da una torre di vedetta merlata e decorata. Il monumento è costruito intorno a due chiostri, uno grande e uno piccolo, l’uno in alto, dove erano concentrate le attività della Certosa, l’altro in basso dove si svolgevano quelle estranee alla clausura. Sul chiostro grande – al centro del quale c’era in origine un bel giardino curato – si affacciavano le dodici abitazioni dei certosini (che ora ospitano invece le aule del liceo classico), mentre autonomo e staccato era il quartiere del priore (costruito però solo nel Seicento). Piccoli giardini che si aprivano dinanzi alle stanze dei monaci, i granai, le scuderie, il refettorio, il cimitero e un pozzo che attingeva acqua da una cisterna sottostante, arricchivano il complesso.
Nonostante la sua forzata decadenza, però, la Certosa non ha mai perso il suo fascino, la sua forza evocatrice, né quell’aria di mistero che avvolge ogni roccia, casa, villa di Capri. Di quel palazzo, per esempio, il viaggiatore Bouchard descrisse per primo il quartiere del priore, e favoleggiò di quest’ala isolata e appartata sull’ultimo ripiano della roccia scoscesa, sull’ampio giardino quadrato chiuso da alte mura; sulla loggia e le stanze di soggiorno al piano superiore, e le stanze di riposo giù, secondo la pianta della loggia imperiale di Villa Jovis. E come Tiberio scendeva al triclinio per godere delle rocce e del mare, così il priore si incamminava su un sentierino fino a un belvedere di fronte ai Faraglioni e agli scogli di Marina Piccola. Fantastica Bouchard: «Il priore della Certosa aveva tagliato con le sue braccia una strada per scendere alla Marina e scavato nella roccia stanze e gallerie…». Il mito sorgeva intorno alla vita del priore, così come era sorto intorno alla vita segreta di Tiberio.

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