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Sua maestà il raviolo

È uno dei piatti simbolo dell’isola e il suo segreto è tutto nel ripieno

di Luciano Pignataro

 

 

 

 

Raviolo, raviolo delle mie brame, quali i tuoi segreti? Per conoscerli non basta guardare, bisogna provare perché il trucco avido per intrappolare i gourmet è tutto nella composizione della farcia che varia di regione in regione, da famiglia a famiglia.
Più degli spaghetti è capace di rappresentare l’unità nazionale italiana, per lo meno a tavola. Non a caso il raviolo è il primo tipo di pasta ripiena di cui si abbia notizia certa e documentata a cavallo tra il XII e il XIII secolo, quando un colono savonese si impegna a fornire al proprio padrone un pranzo per tre persone durante la vendemmia fatto di pane, vino, carne e ravioli. Fu proprio nel corso del Duecento che Genova cominciò a diffondere questa pasta attraverso i suoi traffici nel Mediterraneo, per molti secoli l’unica autostrada italiana, quasi sempre più sicura del viaggio in terraferma dove la possibilità di incontrare banditi era certa come la fatica di salire e scendere tra colline e montagne senza avere traccia di alcun sistema viario dopo la caduta di Roma.
Non si conosce il significato del termine, qualcuno lo fa derivare da rabiola, ossia piccola rapa, c’è chi pensa al rovigliolo inteso come groviglio per la farcia, oppure semplicemente inventato da un cuoco di nome Ravioli impegnato a Gavi Ligure a cucinare per i signori genovesi residenti nello strategico paese roccaforte della Repubblica.
Già alla fine del Duecento a Parma si trovano tracce del raviolus nella cronaca di Fra Salimbene mentre la consacrazione ufficiale è senza dubbio nel Decamerone, quando Giovanni Boccaccio ambienta i ravioli nel paese del Bengodi dove, citiamo, c’era «una montagna tutta di formaggio grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli, e cuocerli in brodo di capponi«. D’altra parte il Larousse, nel suo piccolo dizionario gastronomico, concede proprio all’Italia l’invenzione del raviolo. Giambattista Gaulli, detto ”il Baciccio”, grande firma della pittura secentesca genovese, si faceva mandare a Roma, dov’era impegnato a dipingere la volta della chiesa del Gesù, opulenti piatti di ravioli preparati dai parenti rimasti in Liguria. E se li divorava fra le impalcature mente dipingeva santi e madonne.
Anche le memorie di Niccolò Paganini sono popolate da ravioli fumanti e gustosi secondo la tipica variante genovese caratterizzata da una farcia di polpa di vitello macinata con la borragine e da frattaglie quali le animelle, le cervella e gli schienali, ripieno estremamente sofisticato nei sapori. Sicuramente comunque oltre che in Emilia Romagna il raviolo è presente in tutta la dorsale appenninica meridionale e poi, con la nascita della società dei consumi di massa, apprezzato ormai in tutta Italia. Le differenze sono nella grandezza e ovviamente nella farcia anche se questo scrigno gastronomico è stato adottato dall’alta ristorazione in mille varianti.
Ma nei paesi del Sud in genere si usa formaggio fresco, pecorino soprattutto, con qualche spezia e si condisce sempre con il pomodoro per riequilibrare con l’acidità la grassezza della farcia e la dolcezza della pasta.
Ed è appunto la variante dolce, magari con farcia di castagne e aggiunta finale di miele, cannella e diavulilli, cioé piccole perline di confetti colorati, ad essere molto diffusa nel Cilento, nell’Irpinia e in Calabria, cioé nelle zone interne dove prevale la cultura della cucina di montagna. Una cosa è certa, il raviolo nasce lì dove non esiste la tradizione di pasta di grano duro, come piatto della festa e della gioia per i bambini.
Impossibile stabilire con certezza come siano andate le cose anche perché conta il fatto che oggi il raviolo più famoso è appunto quello caprese, il piatto simbolo dell’isola, i cui segreti sono custoditi gelosamente dalle ultime massaie e dagli chef al lavoro nei ristoranti e negli alberghi. E allora meglio dare subito la ricetta classica per quattro persone. Utilizziamo mezzo chilo di farina, un paio di cucchiai di olio extravergine di oliva, un po’ d’acqua per la pasta mentre nel ripieno ufficialmente metteremo 300 grammi di caciotta secca, due uova, almeno 200 grammi di formaggio grattugiato, un po’ di maggiorana. Ma qui dobbiamo fermarci con le rivelazioni perché ciascuno ha il suo segreto sulla stagionatura del formaggio, decisiva per la differente consistenza della farcia, e soprattutto per le erbe aromatiche mediterranee di cui Capri è sempre stato un museo botanico. Prepariamo la sfoglia mettendo in un recipiente la farina, l’olio extravergine di oliva, mezzo litro di acqua calda mescolando energicamente fino ad ottenere una pasta omogenea da far riposare qualche ora. A differenza della opulenta versione emiliana in questo caso nella pasta non si mettono né uova e né burro.
A parte avremo preparato la farcia unendo la caciotta, in genere di latte vaccino, il formaggio grattuggiato, la maggiorana, le uova sbattute. Dopo un po’ riprendiamo la pasta, la lavoriamo per qualche minuto infarinando un po’ e infine la stendiamo con un mattarello fino ad ottenere la sfoglia sottile. Ricaviamo la forma del raviolo, lo riempiamo e lo chiudiamo. Giù poi nell’acqua bollente per cucinarlo. Il condimento è sempre quello: sugo di pomodoro fresco e basilico. La forma è sempre rotonda ma irregolare, il bordo è merlato o dentato se preferite.
Con l’arrivo dell’opulenza Capri, isolata sino all’arrivo di Ferdinando di Borbone amante della caccia alle quaglie, ha cominciato ad inserire molte varianti nella farcia, anche di tipo non tradizionale come la mozzarella o il fiordilatte vaccino.
Io voglio cogliere l’occasione per darvi la ricetta di uno chef che ha lavorato a lungo sull’isola. Si tratta di Nazzareno Graziano Menghini, della scuola di Gualtiero Marchesi, re delle cucine del Quisisana per molti anni prima del suo trasferimento a Roma e dell’arrivo del bravissimo Mirko Rocca. Per la pasta useremo un chilo di farina, mezzo litro di acqua calda e 50 grammi di olio di oliva secondo l’impostazione tradizionale. Nella farcia, invece, metteremo 600 grammi di ricotta secca, 300 di fiordilatte, 100 di ricotta, due tuorli d’uovo, una manciata di parmigiano reggiano, una grattatina di noce moscata, un mazzetto di maggiorana. Anche in questo caso la salsa è fatta con pomodoro e basilico.
Con i tempi che corrono, questo può sicuramente considerarsi un piatto mediterraneo completo tanto per il goloso quanto per il nutrizionista ed è sicuramente una delle bandiere della cucina caprese così come si è classicizzata nel corso degli anni Sessanta e Settanta anche se si è diffuso anche a Sorrento, Massa Lubrense e Vico Equense dove viene proposto in quasi tutti i ristoranti.
Sulla variante classica berremo un rosso di pronta beva, un Piedirosso dei Campi Flegrei o di Ischia lavorato solo in acciaio va sicuramente bene abbinato alla salsa di pomodoro e alla farcia.

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