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Un’isola da cantare

Dalla celebre “Luna Caprese” alle melodie di Roberto Murolo. Così Capri è entrata con forza nella musica italiana

di Paolo Prato

 

 

 

 

Tu, luna luna tu, luna caprese, ca faie sunnà l’ammore ‘a ‘e ‘nnammurate, adduorme ‘a Nenna mia ca sta scetata e fall’annammurà cu’ ‘na buscia ». Sono versi di Augusto Cesareo, scolpiti sul marmo, quelli che accolgono il turista appena approdato a Capri. Versi, sì, ma non di poesia. Per chi non lo sapesse, è infatti una canzone a dare il benvenuto al visitatore sbarcato sulla perla dell’arcipelago campano. E che canzone! Sulla pietra è incisa una delle più belle melodie degli anni Cinquanta: Luna caprese.

Lanciata da Nilla Pizzi nel 1953, fu rivisitata nel 1960 dalla metallica voce di Peppino Di Capri, che ne fece un successo da hit parade. Vera e propria canzone-monumento, il brano composto da Luigi Ricciardi è il simbolo musicale di un’isola cara al turismo internazionale che, anche grazie a questi piccoli gioielli della creatività, alimenta i propri miti rievocandoli in ogni tempo e luogo. Ma numerose sono le canzoni-cartolina dedicate a Capri. Come a ogni luogo dell’immaginario turistico che si rispetti. Canzoni che funzionano come lampade di Aladino: basta sfregare un poco ed ecco che si materializza la magia di un’atmosfera, di un souvenir, di un profumo. Congelati in un ritornello, in brevi – magari stupide – frasi, avrebbe detto Proust. Con Napoli alle spalle, non è stato difficile per Capri farsi una reputazione musicale. Capitale della musica per secoli, prima dell’opera poi della canzone e del varietà, la città di Scarlatti, Paisiello e Di Giacomo è stata anche una capitale culturale di livello europeo, in concorrenza con Parigi o Vienna per il primato nelle arti del teatro. Se infinite sono le melodie dedicate alla città e ai suoi luoghi caratteristici (Marechiaro, Mergellina, Santa Lucia, Capodimonte, il Vesuvio, Toledo…), altrettanto gettonate risultano le località circostanti, che hanno contribuito a crearne la mitologia: Sorrento, Positano, Posillipo, Ischia e Capri, appunto. Che comincia a diventare soggetto di canzone verso la fine del secolo scorso.

 

I PRIMI TITOLI

Stando all’Enciclopedia della Canzone Napoletana di Ettore De Mura (Il Torchio, Napoli, 1968), il primo titolo rintracciabile è ‘A grotta azzurra, di Pasquale Cinquegrana (l’autore di Ndringhete-ndrà) e Edoardo Di Capua (il compositore di ‘O sole mio e ‘I te vurria vasà), 1889. «Chell’è na grotta tutta turchina, comme so’ l’uocchie ca tiene, oi ne’», dicono le parole dedicate alla famosa grotta la cui scoperta, avvenuta nel 1826, accese l’interesse internazionale nei confronti dell’isola, fino a quel momento appendice alla visita di Napoli. Capri entrò nel flusso turistico a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e a fine secolo era già una meta obbligata. Alla diffusione della sua immagine contribuirono non poco fotografi e illustratori, che ne fissarono gli stereotipi “pittoreschi” e ne fecero un luogo romantico per eccellenza. E questo proprio mentre la civiltà stava abbandonando il romanticismo per gettarsi nella ”modernità”. Quella modernità che la canzone riusciva così bene a rendere nei café-chantant della cosmopolita metropoli partenopea, nei suoi teatri stracolmi, nei ristoranti affacciati sul mare, presidiati – pranzo e cena – da gavottisti e posteggiatori che allietavano i commensali con chitarre e mandolini. Fra le canzoni più richieste c’era Custantina (sottotitolo: ‘A canzone ‘e Capri), che Giambattista De Curtis scrisse nel 1894: «Si vuo’ campà felice, viene a Capre: addò nascett’Ammore e mo ce regna». Quattro anni dopo, l’autore di Torna a Surriento pubblicava la meno nota Capri.

Un’altra Canzone ‘e Capri veniva data alle stampe nel 1915. Gli autori sono Aniello Califano, più noto per aver scritto i versi di ‘O surdato ‘nnammurato, e Rodolfo Falvo (Dicitencello vuje). Capri torna a far parlare di sé negli anni Trenta, con tre episodi “minori” di alcuni giganti della canzone: la coppia R. Chiurazzi-N. Valente (Signorinella, Simme ‘e Napule paisà) con Capri gentile (1932), la coppia Bovio (Lacreme napulitane, ‘O paese d”o sole) – Tagliaferri (Piscatore ‘e Pusillepo, Passione) con Canzone a Capri (1936) e la coppia E. Murolo (Mandulinata a Napule) – Nardella (Chiove), con Marina Piccola (1936). Nel 1953 un’altra Marina Piccola verrà pubblicata da Cesareo e Ricciardi. Anche i grandi autori americani subiscono il fascino “esotico” di Capri, cui dedicano un ritratto memorabile: Isle of Capri (1934). Scritta da Jimmy Kennedy (Serenata messicana) e Will Grosz (Along the Santa Fe Trail), la canzone venne lanciata dall’orchestra di Ray Nobel ma resa immortale dal duetto fra Bing Crosby e Rosemary Clooney, oltre che da Sinatra. è la tipica canzone-cartolina modello Hollywood: sotto l’ombra di un nocciolo, fiori dappertutto, blue Italian sky sulla testa, nasce una romance tra pasta, vino e vecchi mandolini… Il ritorno a casa, a Los Angeles, produrrà l’effetto-mito, come la Fontana di Trevi, San Pietro e il Campanile di Giotto in altrettante melodie.

 

GLI ANNI CINQUANTA

Ma la grande stagione della canzone caprese sono gli anni Cinquanta, quando l’isola è al centro del rinnovamento musicale originato dall’innesto dei ritmi ballabili, d’importazione americana, sulla tradizione. Fra Capri, via Veneto e la Versilia si bruciano le energie della gioventù cosmopolita a suon di musica.

È l’epoca del night, della mondanità, del cinema, che imperverserà fino agli anni del boom. Ne era passato di tempo, da quando Maxime Du Camp, amico-nemico di Flaubert, scriveva, giunto a Capri nel 1862: «per quella gente, lo straniero è una preda; ne vivono, vi si gettano sopra come su un bottino che loro appartiene. Gli si offrono delle conchiglie, dei fiori, dei ciottoli, per ottenere il bajocco», un po’ come oggi avviene a L’Avana o a Delhi.

Nel 1949 Truman Capote, sbarcato a Ischia, descriveva Capri come «ripostiglio per turisti». In quello stesso anno, Claudio Villa cantava, con un linguaggio a un passo dal dépliant turistico, «Qui sotto il cielo di Capri, com’è bello sognar mentre mormora il mar. Qui fra spalliere di rose e di glicini in fior paradiso è l’amor». Qui sotto il cielo di Capri, di Bonagura e Fragna, parla dell’isola come di «un’azzurra leggenda».

L’anno prima Roberto Murolo aveva inciso Scalinatella (di Bonagura e Cioffi), ispirata a una delle scalinatelle di Positano o, più probabilmente, di Capri. Nell’immediato dopoguerra la gente era tornata a cantare e ballare, nelle feste di piazza e in locali dall’atmosfera peccaminosa e dissoluta che si diffondevano un po’ ovunque.

Il genere musicale che andava per la maggiore era uguale in tutta la Penisola, dal “Pipistrello” al “Club 84”, dal “Rancio Fellone” alla “Rupe Tarpea”, ma la novità dei night partenopei era la trasformazione cui la canzone napoletana, vecchia e nuova, andava incontro. Nelle note che risuonano nel golfo c’è più ritmo e meno poesia.

Il genere prediletto era lo slow, «che restava l’unico modo conosciuto per abbracciare una donna senza doverla sposare ». Napoli fu all’avanguardia nello sfornare melodie accattivanti che venivano danzate guancia a guancia. Protagonisti di questo rinnovamento furono gli interpreti. Se per un lungo secolo il motore della tradizione canora erano stati i poeti e i musicisti, l’epoca del night vide salire alla ribalta i cantanti, a loro volta spesso autori per se stessi. Figure come Carosone, che fornì una versione umoristica del night, o come Murolo che, con la sua chitarra e il suo canto sussurrato, rappresentò il lato “romantico” del night. Le sue canzoni non erano ballabili, eppure incontravano i favori di chi un attimo prima stava ancora avvinghiato alla bionda di turno. «A curly boy playing guitar», faceva eco Buscaglione nell’epocale Love in Portofino (1958): forse era lui quel «ragazzo ricciolino che suona la chitarra», o un suo emulo… Uno di quei tanti che all’epoca intrattenevano il pubblico dei tira-tardi sia sulla Riviera Ligure che a Capri.

 

ARRIVA PEPPINO

Accanto a Ugo Calise, Fausto Cigliano, Armando Romeo e a interpreti tradizionali come Giacomo Rondinella e Nunzio Gallo, spicca un altro innovatore, che scelse di chiamarsi come l’isola che gli diede i natali: Giuseppe Faiella, in arte Peppino Di Capri. Fu lui a incarnare la transizione fra il night degli anni Cinquanta e la balera dei Sessanta, quando la novità del timbro e dell’arrangiamento contavano più che le canzoni. Era una conseguenza dell’esplosione turistica nella zona, che aveva creato un bisogno di musica di sottofondo per le serate. Peppino Di Capri “traduceva” la melodia partenopea nel linguaggio della popular music internazionale, arrivando perfino a inventarsi un ibrido: l’anglo-napoletano, che infarcisce molte delle sue canzoni («lassame sulo cu ‘sti lacreme accussì… you and me»).

Fra decine di successi (dal 1959 al ’64 sono trentaquattro i dischi piazzati in classifica: record assoluto per la canzone italiana) c’è una Capri scritta con Mazzocchi e Cenci, dove l’isola fa da interlocutore-confessore del protagonista, disperato per amore.

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