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Verde e perfida

Le rupi assolate sono il regno dell’euforbia. 
La pianta dalle infinite sfumature cromatiche che nasconde l’insidia di un potente tossico

di Tullia Rizzotti

 

 

 

 

Ada Negri, nei Canti dell’isola, la raffigura come “nutrita di roccia” e le dedica un’ode col suo stesso nome, Euphorbia: «T’è impresso sul volto di fiore il mistero della madre pietra. / Splendi in aprile come un disco d’oro (..) / O velenosa, sei bella; ma niun s’attenta a toccare i tuoi fiori perfetti».
La “vavolla” caprese, Euphorbia dendroides per i botanici, erompe dalla nuda pietra in uno squillante grido di vita. Balze e dirupi sono il suo regno: sfolgora sugli appiombi da vertigine del Parco Astarita; avvolge in un anfiteatro d’oro il candore di Villa La Solitaria, anch’essa aggrappata alla roccia. Già sulle roccette a lato della via in salita dal porto di Marina Grande accoglie a primavera con il solare benvenuto dei suoi fiori, quasi a mettere subito in chiaro di essere uno dei simboli dell’isola.

 

PIANTA-TAVOLOZZA


La forma vigorosa è una cupola perfetta, addolcita dal traforato merletto dei fiori. L’euforbia arborea ama associarsi in fitte comunità: ricopre ampie superficie con un mare dorato, dove le cupole sembrano onde inquiete. Potrebbe davvero definirsi “vestita di sole”, racchiudendone tra fiori e foglie, in un’inesauribile magia cromatica, tutte le infinite sfumature: dal pallore dell’alba all’oro sfolgorante del mezzogiorno fino al tramonto più sanguigno.
Quando il fiore giallo-sulfureo cade, il punto d’attazione si sposta sulle foglie: all’inizio della stagione calda la pianta inizia a spogliarsi con una lentezza che pare studiata per dar tempo alle foglie caduche di mutare colore dal verde al rosso scarlatto, al ruggine, al bronzo. Infine la tavolozza si spegne di nuovo nell’oro, questa volta pallidissimo.
Norman Douglas, affascinato da questa danza lenta, osserva in La terra delle Sirene che «non esistono due cespugli eguali, nemmeno quando le radici si intrecciano tra loro. Bianco terreo o spettrale, arancione, marrone e vermiglio, dal rosa corallino al rame bruciato molto carico, dallo zafferano più tenue al giallo oro carico. Le varietà rosse spiccano da lontano e spesso risplendono con una specie di iridescenza luminosa, che costituisce un prezioso tocco di civetteria, come il reflet metallique della maiolica orientale». La tinta purpurea segue alla concentrazione di pigmenti antociani: perso il proprio oro, a maggio l’euforbia contende l’attenzione al giallo squillante delle ginestre in fiore con l’esibizione infuocata delle foglie.

 

L’INSIDIA DEL VELENO

Ma il fascino cela l’insidia di un potente tossico. Come tutte le euforbie la pianta geme un lattice irritante appena se ne spezza un ramo, dal sapore acre e bruciante per chi fosse così sprovveduto da assaggiarlo. Persino le capre se ne tengono ben lontane, e la macchia ad euforbia si diffonde incontrastata nelle plaghe più aride.
Volgendo in positivo le proprietà corrosive della pelle il lattice era usato a Capri in medicina popolare per estirpare verruche e calli. Norman Douglas ricorda anche un altro utilizzo curioso (e rischioso): per evitare il servizio militare «I giovani si mettevano negli occhi una goccia di lattice, che procurava una vistosa infiammazione e mise in serio imbarazzo i buoni dottori fino a quando il trucco non diventò troppo noto».
Un utilizzo ancora più spregiudicato era fatto sin dall’antichità da certi pescatori delle coste del Mediterraneo dove l’Euphorbia dendroides cresce, avendo scoperto che perfino i pesci sono vulnerabili al tossico lattice: versato in acque dolci ferme (anse di torrenti, laghetti) stordisce i pesci facendoli affiorare ed assicurando una facile cattura.

 

DAL MITO ALLA SCIENZA MEDICA


Scivolando ancora più indietro nel tempo il nome dell’euforbia si associa a quello della maga Circe, esperta di filtri e di veleni, ed al Monte Circeo, dove la maga visse e l’euforbia abbonda ancora oggi.
La leggenda vuole che Circe si sia recata al tempio di Angitia, dea protettrice dalle malattie, sulle rive del lago Fucino nella terra dei Marsi, e vi abbia soggiornato per qualche tempo. La tribù italica dei Marsi è realmente esistita: poi sottomessa dai Romani, era famosa per la sapienza in fatto di erbe medicinali. Plinio il Vecchio narra nella Naturalis historia che i Marsi invocavano Angitia per conoscere le proprietà delle specie officinali, diffusissime nel loro territorio, e le cure per le varie malattie. La dea operava tramite incantationes.
In seguito Circe andò verso sud e si fermò sulla montagna che da lei poi prese il nome, attratta dall’abbondanza di specie medicamentose. La fece sua residenza, dedicandosi allo studio delle erbe medicinali e dei veleni.
Affianca il mito la storia certa di Euforbio, medico di Giuba Secondo re dal 25 a. C. di Mauretania (parte dell’odierna Algeria e del Marocco), e del fratello Antonio Musa, a sua volta medico personale dell’imperatore Ottaviano Augusto. Entrambi erano discepoli della scuola di Asclepiade, nato in Bitinia e fondatore della prima schola medicorum a Roma dopo aver studiato filosofia e medicina in Grecia e ad Alessandria d’Egitto; contrario ai troppi medicamenti, introdusse tra le terapie il regime vegetariano, la dieta, l’idroterapia, la ginnastica, il digiuno. Ebbe Cicerone come paziente ed amico.
L’allievo Euforbio fu un esperto botanico, tanto che Giuba, letterato e protettore delle arti, volle legarne il nome ad un genere di piante ancora anonime descritte dal proprio medico personale in un trattato: le euforbie, appunto. Euforbio si chiama ancora oggi il lattice rappreso estratto dall’Euphorbia resinifera, esclusiva dei monti dell’Atlante in Marocco.
Antonio Musa si guadagnò la fiducia di Ottaviano guarendolo prima dai dolori reumatici con pozioni e dieta vegetariana e poi da turbe del fegato con l’idroterapia cara ad Asclepiade, come racconta Svetonio. Dal futuro imperatore ebbe la massima considerazione, ricchezze, onori e il diritto a portare l’anello d’oro pur essendo solo liberto. Pare che il medico accompagnasse Ottaviano quando sbarcò per la prima volta a Capri nel 29 a. C. e che in seguito lo consigliasse circa i punti più salubri dell’isola dove edificare le sue ville. Memore degli studi del fratello si sarà forse appoggiato alla presenza dell’euforbia come segnale delle plaghe più calde per rifuggire nella delicata scelta da quelle umide, scongiurando così una ricaduta di reumatismi ad Augusto.

 

 

MA FIORE NON È…

Le solari infiorescenze dell’Euphorbia dendroides sono solo un insieme di foglie trasformate: per “fiore” un involucro a coppa o “ciazio” (in greco: coppa di vino) con vistose ghiandole arancione sul bordo e al centro un unico fiore femminile contornato da fiori maschili ridotti a un solo stame. Alla base due gialle brattee ovali opposte a simulare i petali. I ciazi si radunano alla sommità dei rami giovani in ombrelle a 5-6 raggi, biforcati all’altezza di un’altra coppia di brattee gialle. I rami legnosi, anch’essi regolarmente biforcati, intessono un’impalcatura arrotondata alta fino a tre metri, fitta di foglie alterne lanceolate sui rami giovani, spoglia sul legno vecchio segnato dalle cicatrici delle foglie cadute.

 

 

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