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Amelio

Vulcanico e trasgressivo, Lucio Amelio fu un gallerista geniale e illuminato. Abitò numerose case di Capri ospitando artisti, critici e mecenati di mezzo mondo

di Francesco Durante

 

 

 

La storia caprese di Lucio Amelio, gallerista, mercante e promotore d’arte tra i più geniali d’Europa, è in realtà la storia di un rapporto di lunga amicizia e fedeltà con uno dei maggiori artisti dell’ultimo scorcio del Novecento, il tedesco Joseph Beuys. Si può anzi dire che, se non ci fosse stata la necessità di soddisfare la curiosità di Beuys nei confronti di quell’isola, che risvegliava in lui echi mitici e oblique ispirazioni, forse Amelio non avrebbe instaurato con Capri un fecondo rapporto durato un quarto di secolo e che ben presto, per il tramite dell’amico tedesco, si sarebbe rivelato anche per lui estremamente suggestivo, capace di alimentare idee e iniziative che sono tra le più interessanti della parte finale della sua esistenza.

Lucio approda a Capri, in pianta più o meno stabile, nel 1971. In quell’anno, insieme con il socio gallerista napoletano Pasquale Trisorio, prende in affitto Villa Orlandi, un’antica dimora di struggente bellezza appartata nei vicoli che fanno corona al complesso ecclesiastico di piazza San Nicola, ad Anacapri. L’estate prima, Amelio aveva per l’appunto conosciuto Beuys tra i padiglioni di Documenta, la fiera dell’arte di Kassel, e tra i due era scattata immediatamente una simpatia destinata a durare nel tempo. Amelio riconosceva in Beuys il punto più alto della ricerca contemporanea europea, l’artista che meglio avrebbe potuto reggere un dialettico confronto con i grandi della Pop Art americana che in quel momento dominavano la scena mondiale. Amelio era ancora un gallerista emergente, con tanta voglia di fare il salto definitivo nell’élite internazionale. Capì che Beuys poteva rappresentare un punto di svolta, e da quel momento ne seguì con appassionata costanza l’evoluzione, già pregustando, forse, il momento culminante di quel percorso, che sarebbe venuto a Napoli nel 1980, quando, in un clamore critico e mediatico mai visto, riuscì a organizzare l’incontro tra Beuys e Andy Warhol nell’antro della Sibilla Cumana. L’estate del 1971, dunque, Beuys viene a Villa Orlandi, ed è lì, nel corso di una vacanza operosa, che nascono i lavori poi esposti nella sua prima grande mostra italiana, “La rivoluzione siamo noi”, nella quale si fissa l’immagine – divenuta in seguito quasi proverbiale – dell’artista tedesco che, indossando un giubbotto da pescatore e l’inseparabile feltro ben calcato sul capo, attraversa per l’appunto l’atrio di Villa Orlandi. Nelle estati successive, il buen retiro anacaprese sarebbe stato ancora molto fertile. Al 1974, in particolare, risalgono alcuni lavori di notevole rilievo come il Cristo morto, L’asciugamani, e i disegni ispirati al Codice Leicester di Leonardo da Vinci, che ora fanno parte della Collezione Fisher a New York.

La caratteristica saliente di queste opere sta nel loro essere originate dai materiali più umili (un santino incollato su un foglio, un brandello di tessuto spugnoso caratterizzato da strani rammendi, e così via) dietro i quali s’indovina un “metodo” di lavoro che era poi quello affidato a una continua “scoperta” della semplice realtà quasi campestre legata al giardino di Villa Orlandi, e che in seguito si sarebbe trasferito con modalità analoghe nelle altre case prese in affitto da Amelio sull’isola. Dopo Anacapri, alla metà degli anni Settanta, fu la volta di Le Pavillon, la villa di Annie Cottrau a Matermania. Qualche anno dopo, toccò a Villa Quattro Venti, ai Due Golfi. Proprio a quest’ultima casa sono legati alcuni dei più noti exploit dell’ultimo periodo creativo di Beuys.

Le giornate, in quella villa dove poco tempo prima aveva già risieduto Sandro Chia, uno dei più famosi artisti italiani, trascorrevano nell’incanto di una continua invenzione. La leggenda vuole che lo stesso Lucio disseminasse nel giardino gli strani reperti che poi Beuys ritrovava e riutilizzava per il suo lavoro. Ed è proprio in quel giardino che, nell’assolata “controra” di un’estate dei primi anni Ottanta, l’aria ferma venne squarciata dal grido disperato di Amelio: «Il gatto si è mangiato un milione di dollari!».

Che cosa era successo? Semplicemente che per l’appunto un gatto aveva fatto razzia di una serie di lische di pesce che, accuratamente mondate dopo un paziente lavoro di cucina, erano state allineate da Amelio su un muretto nella previsione di un loro utilizzo da parte di Beuys per un grande lavoro da tempo progettato. A parte l’impresa nefasta del gatto, comunque, in quello stesso anno nacque proprio lì uno dei più efficaci lavori di Beuys, il multiplo Capri Batterie, costituito da un piccolo cubo di legno sormontato da una lampadina gialla, nel cui vano interno, a vista, c’è un limone fresco che deve essere continuamente sostituito non appena sia divenuto troppo vizzo. A Villa Quattro Venti nacque anche Scala napoletana, un lavoro costituito da una tipica scala a pioli triangolare rinvenuta in un campo adiacente, il cui montante di sostegno Beuys aveva sostituito con un fildiferro assicurato a un pezzo di tufo che ne garantiva l’equilibrio. E ancora, a Villa Quattro Venti Beuys e Amelio avviarono tutto il lavoro che sarebbe poi sfociato nella grande mostra “Palazzo Regale” a Capodimonte.

Lucio Amelio era solito aprire le sue case capresi a una moltitudine di ospiti. Cy Twombly, Robert Rauschenberg, Gerhard Richter, Keith Haring, Robert Mapplethorpe e numerosi altri artisti, critici e curatori di musei e gallerie vi giungevano da mezzo mondo. Col tempo, Lucio aveva maturato una sua propria mitologia caprese, imperniata in particolare sulla figura del barone Jacques d’Adelsward Fersen e forse ancor più sulla sua magnifica dimora, Villa Lysis. A quel tempo, la villa era in uno stato di completo abbandono, sorvegliata in modo bizzarro da una inquietante custode. Tutto era stato trafugato, persino le piastrelle della cosiddetta “sala dell’oppio”. Tra i riti imposti da Amelio ai suoi ospiti, c’era per l’appunto una quasi quotidiana sgroppata fino a Villa Lysis, che non di rado, date le abitudini del padrone di casa, aveva luogo nelle prime ore del pomeriggio, circostanza che, come si può capire, raddoppiava la fatica della salita. Ma Amelio era tetragono e rigorosamente abitudinario. Il suo vecchio motto “Keine Experimente” contemplava per esempio il fatto che a cena si andasse esclusivamente da Gemma oppure da Paolino; qualche raro strappo alla regola poteva essere ammesso per Luigi ai Faraglioni nel caso di peraltro sporadiche e fulminee puntate balneari; ma poi ovviamente c’erano altre occasioni in cui il cenacolo dell’arte finiva in accoglienti dimore private, come quelle di Graziella Buontempo o di Bruno e Antonella Pisaturo, oppure sulla barca di Mario Valentino. L’amore per la mitica Capri dei tempi d’oro ispirò a Lucio, negli ultimi tempi, il desiderio di fare qualcosa per recuperare Villa Lysis, e di varare la pionieristica associazione che ne portò il nome, presieduta dal biografo di Fersen, lo scrittore francese Roger Peyrefitte, prontamente convocato per l’occasione sull’isola.

Beuys sarebbe morto a Düsseldorf nel gennaio del 1986. Qualche mese prima, aveva chiesto a Lucio di trovargli una casa a Capri, dove avrebbe voluto trasferirsi stabilmente benché sconsigliato dai medici che lo avevano in cura. Lucio, a sua volta, sarebbe stato consumato dal male nel luglio 1994, e proprio a Capri volle essere sepolto. La sua tomba, nel cimitero acattolico, è costituita da una grande lastra rettangolare di marmo nero del Belgio. Fu lui stesso a disegnarla, con l’assistenza del critico Michele Bonuomo, nella sua ultima estate. Al centro della lastra marmorea, sotto il nome di Lucio Amelio, è inciso un cerchio, e quando il sole è allo zenith vi si produce un effetto-specchio, con una luce molto intensa. Più in basso sta scritto: “L’isola del sonno”, che è il titolo di un piccolo disegno con un collage di Beuys, fatto nel 1974 proprio a Capri. Sembra che ogni giorno qualcuno, senza nome, porti fiori su quella tomba. E che nel cerchio che la decora campeggi sempre un limone fresco.

 

 

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