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Le ore della pesca

Un rito antico fatto di costanza e passione che un tempo era uno dei mestieri più diffusi sull’isola

di Enrico Desiderio

 

 

 

 

Sono le quattro. E come ogni giorno dalla baia di Marina Piccola un manipolo di barche prende il largo. “Elvira”, “Aquila”, “Maria Diletta” e “Impetuoso” sono i nomi impressi sulla prua delle imbarcazioni, nomi non scritti a caso, ognuno con la propria storia. A bordo ci sono i fratelli Sergio e Aldo, Luigi, Salvatore. Vanno sulle “poste” a calare le reti, le nasse, le coffe che torneranno a ritirare più tardi. Il sole sta per tramontare quando le barche rientrano con il loro prezioso carico, ogni mese ha la sua specialità, a settembre e novembre i calamari a luglio le ricciole; ad agosto pezzogne e totani. Le nasse si riempiono di gamberetti e le reti regalano scorfani e murene. Un rito antichissimo. Fin dall’Ottocento questa splendida insenatura è stata infatti ormeggio sicuro per i pescatori al ritorno dalla pesca, un bene prezioso per l’alimentazione tradizionale dell’isola. Allora si chiamava Marina di Mulo ed era un lembo di ciottoli e sabbia bianca che nulla aveva a che fare con i muli se non il fatto di conservare resti dell’antico porto utilizzato dai Romani; mulum, appunto. Sulla piccola baia si incontrava solo qualche capanno, le reti issate dai cacciatori per imprigionare le quaglie di passaggio e quelle stese dai pescatori. E chissà se qualcuno di loro non discendesse dagli antichi romani che nelle stesse acque avevano compiuto gli stessi gesti e pescato lo stesso pesce? Nei pressi della spiaggia si trovavano i “munazzeri”, i magazzini dove venivano ricoverate tutte le attrezzature per la pesca. Le nasse costruite da mani esperte intrecciando il giunco, le lenze fatte con il crine di cavallo maschio e le reti di cotone cucite con il caratteristico ago in legno, un attrezzo antico e semplicissimo. All’ancora le barche a remi di quella che diventerà la piccola comunità di pescatori della Marina di Mulo. Tra questi Antonio, Luigi, Giovanni, Costanzo. I pescatori Lembo chiamati “la Sorechella”, cioè “piccolo ratto”, soprannome di un antenato cacciatore di quaglie che con grande abilità riusciva a stanare gli uccelli dalla macchia mediterranea che si estendeva intorno, quasi fino alla marina. I volti fieri e segnati dal mare, dal sole e dalla salsedine. Nel 1897 la piccola comunità chiese all’amministrazione comunale di erigere una chiesa nei pressi della spiaggia dedicata a Sant’Andrea, il protettore dei pescatori. Grazie alla generosità del banchiere tedesco Hugo Andreae e di sua moglie Emma che finanziò l’opera, nel 1900 i pescatori ebbero il loro luogo di culto dedicato al Santo che ancora veglia sulla pittoresca baia. Ma oggi si contano sulle dita di una mano quelli che sull’isola vivono di pesca. I pochi rimasti continuano però con costanza e passione a ripetere gesti e rituali antichi che raccontano di vite fatte di sacrifici e di gioie, di paura e di coraggio. Ogni ruga ed ogni segno sui loro volti bruciati dal sole e dalla salsedine parlano del rapporto unico che ognuno di loro ha stretto con il mare. Quel mare di cui hanno imparato a conoscere il respiro e a rispettarne gli umori, ad amare quando è generoso e quando si incendia con i colori del tramonto o regala il canto dei gabbiani che accompagnano le barche. Quel mare che è la loro ragione di vita e di cui loro, i pescatori, custodiscono segreti e saggezze, che non avranno però a chi tramandare.

 

La “Sorechella”

Costanzo Lembo e i suoi quattro figli erano i pescatori della Marina di Mulo che, agli inizi del Novecento, erano conosciuti come “‘a Sorechella”. Per la pesca utilizzavano soprattutto lenze e coffe, che erano lunghe lenze fatte a mano con un filo robusto a cui ne venivano attaccate di più corte terminanti con ami. Oppure le nasse. Quando il mare era calmo, con un lungo arpione a quattro o cinque punte riuscivano a colpire i polipi con mirabile precisione.

 

 

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