03L’isola dei famosi

Per il giornalista padrone del gossip lo spirito “cafonal” si è impadronito del fascino antico

Intervista a Roberto D’Agostino di Daniele Autieri

 

 

 

 

 

Roberto D’Agostino, Dago per gli amici, Dagospia per l’anagrafe internettiana, rappresenta lo sguardo più indiscreto dell’informazione italiana. I suoi occhi vispi, nascosti dietro una spessa montatura, scrutano abitudini, vizi e debolezze degli uomini da prima pagina, siano essi dirigenti d’azienda e grandi manager, subrette in rapida ascesa o politici a caccia di notorietà. Chiedergli di raccontarci Capri è come chiedere a un bambino di tuffarsi in una coppa di gelato, perché l’isola è il cuore di quel mondo che popola le pagine del suo celebre sito web e alimenta la curiosità vouyeristica di tutti gli italiani.

Qual è l’immagine di Capri che è rimasta più saldamente impressa nei suoi ricordi?

«Fino agli anni Ottanta-Novanta ho avuto ben poco a che fare con Capri, niente di più di una gita con la famiglia e una foto di fronte ai Faraglioni. Poi, mi sono riavvicinato all’isola quando Arbore e De Crescenzo svacanzavano da quelle parti. Erano i tempi di Quelli della notte; andavamo a cena Da Paolino e l’aria era quella goliardica dei ragazzacci. Allora è iniziata la mia love story con Capri, diviso tra Quisisana e Anema e Core».

Qual è l’aneddoto che racconta meglio quegli anni?
«La maggior parte non si possono raccontare, ma un episodio che esprime alla perfezione lo stato d’animo di allora ha il suo protagonista in De Crescenzo, riconosciuto da tutti noi come uno dei più grandi taccagni d’Italia. Ci troviamo a bordo di un gozzo, ancorati in una caletta, e lui rimane l’unico a secco, senza farsi il bagno. Così:, mentre tutti noi decidiamo di tuffarci per sguazzare un pochino, De Crescenzo ci urla dalla barca: “com’è l’acqua?”, e noi: “è gratis!”.

Sono queste le atmosfere di Capri che si respiravano in quegli anni. Per darne un altro esempio dobbiamo tornare al 1987 quando presentai il mio libro Libidine fatto in plastica gonfiabile ed edito da Mondadori. L’evento fu seguito da una festa in cui tutto era di plastica, dai palloncini ai preservativi».

Cosa sopravvive all’immagine di una Capri isola del peccato, figlia di una letteratura e di un’aneddotica che le ha regalato un’aura di fascino e perversione?

«Capri oggi non è più l’isola del peccato, ritratta dalle penne dei grandi romanzieri. All’epoca era il ritrovo di tutta la colonia gay letteraria, oggi il peccato te lo danno ovunque come mancia, come resto al bar. Un tempo Capri era un posto extraterritoriale, un porto franco della sessualità e del divertimento, un luogo capace di offrire esperienze esclusive e irripetibili altrove. Oggi quell’odore di zolfo si è disciolto con l’arrivo della modernità».

Qual è la forza di Capri. Cosa la rende unica?
«Sicuramente la sua bellezza, che è fuori discussione. Del resto non l’abbiamo scoperta noi e non è un caso che già Tiberio l’avesse scelta come un luogo paradisiaco. L’isola è ricca da sempre di ambientazioni straordinarie, che poi nel tempo hanno appassionato esteti e gay».

Esiste una sorta di sacralità dell’isola, quella che si rinnova ogni anno nel presenzialismo e nella ritualità dell’esserci ad ogni costo?
«Per quanto riguarda la mondanità, i riti del presenzialismo che si ripetono tutte le estati, Capri rappresenta il “cafonal dei cafonal”. Diverso da quello romano perché non conquista solo i vip capitolini, ma tutti coloro che approdano sull’isola. Dalle feste in casa di Dino Trappetti alle serate trascorse cantando sui tavoli di Anema e Core, ogni individuo viene traviato dallo stile dell’isola. Anche i milanesi, in molte altre occasioni compassati e discreti, si lasciano vincere dallo spirito “cafonal”, come dimostra la storica foto di Afef che canta nella taverna di Guido Lembo, mentre Paolo Mieli e Marco Tronchetti Provera suonano i tamburelli. Un’immagine che vive e si consuma solo dentro i confini di quest’isola».

 

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