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Luce e colore

Gli angoli più incantevoli della Campania diventano immagini suggestive nelle tele di Giacinto Gigante, il maggior esponente del vedutismo napoletano

di Ludovico Pratesi

 

 

 

 

Un gigante di nome e di fatto, capace di rinnovare la pittura di paesaggio nell’Italietta dell’Ottocento, ancora immersa negli ultimi echi freddi e sordi del neoclassicismo, senza avere il coraggio di affrontare le seducenti inquietudini della veduta romantica, dove la natura rivela la sua forza primitiva e selvaggia. Ma per un pennello inquieto e ambizioso come quello di Giacinto Gigante (1806-1876) le sfide sono all’ordine del giorno. E la prima è quella di superare lo stile algido e rarefatto del suo maestro, Anton Smick Pitloo, olandese di origine ma napoletano di adozione, leader incontrastato della Scuola di Posillipo: un circolo composto da un gruppo di pittori che propongono ai ricchi stranieri di passaggio a Napoli delle vedute dipinte “a fil di pennello”. Inutile dire che la scelta dei soggetti di quelle gouaches dai colori sfumati è fondamentale. Così, c’è chi si dedica al Vesuvio in eruzione, chi alle rovine di Pompei, chi ai Faraglioni di Capri. Si chiamano Fergola e Carelli, Castiglione e Smargiassi, De Francesco e Franceschini, tutti riuniti intorno a Pitloo, professore di paesaggio alla nuova Accademia di Napoli, che spinge gli artisti ad abbandonare la dimensione descrittiva per andare verso un’interpretazione soggettiva della natura. Un suggerimento colto in tutta la sua forza innovativa dal suo migliore allievo, pronto a superare il maestro per diventare il vero ed unico protagonista della veduta napoletana della prima metà del XIX secolo.

 

L’INTERPRETAZIONE DEL PAESAGGIO


Uscito dalla bottega del maestro, affacciata su vico Vetreria a Chiaia, Gigante spicca il volo fin da giovanissimo, per diventare una figura di prima grandezza nell’affollato firmamento dell’arte italiana del suo tempo. è affascinato dal carattere dell’ambiente che lo circonda, pronto a celebrarne l’antica bellezza. «Un paesaggio saturo di memorie, di riferimenti colti, di sollecitazioni letterarie: le spiagge delle Sirene, le scogliere di Palinuro, la campagna delle Ninfe, le rocce di Tiberio» spiega lo storico dell’arte Raffaello Causa, uno dei massimi esperti dell’artista. Lo sguardo di Gigante è carico di emozione quando mostra la Villa Reale sotto i raggi obliqui del tramonto, si incunea tra le grotte marine che si aprono nei sotterranei di palazzo Donn’Anna, descrive la folla seduta nella cappella del tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli, in trepida attesa del miracolo, o indugia tra le tinte consunte dal tempo degli affreschi quattrocenteschi nella cappella di Sergianni Caracciolo a San Giovanni a Carbonara. Dipinge opere che trovano subito il favore del pubblico e dei collezionisti italiani e stranieri. Primi tra tutti sono i nobili russi ad apprezzare il pennello di Gigante, commissionandogli decine e decine di vedute napoletane, oggi conservate all’Hermitage di San Pietroburgo. Luoghi che l’artista vedeva sempre in chiave pittorica ancora prima di trasferirlo sulla tela o sulla carta, nel rispetto assoluto della tradizione della veduta napoletana. Tradizione che affondava le radici addirittura nel Seicento, tra i dipinti dei maestri della Napoli barocca, come Micco Spadaro, Filippo Napoletano o Massimo Stanzione, per poi proseguire nel secolo successivo con le vedute di Hubert Robert e Philip Hackert, dalle tinte nitide e brillanti.

 

DALLA SCUOLA DI POSILLIPO ALLA CORTE DEI BORBONI


Di tutto questo Gigante era consapevole, nel suo desiderio di rinnovare la pittura di paesaggio napoletano partendo proprio da una conoscenza approfondita dei suoi predecessori. Un traguardo ampiamente superato, tanto da procurargli una fama di tale ampiezza da raggiungere perfino l’orecchio dello zar Nicola I di Russia, che gli chiederà due grandi dipinti. Non è un caso quindi che, dopo la morte di Pitloo avvenuta nel 1837, Gigante si ritrovi a capo della Scuola di Posillipo, per entrare qualche anno dopo alla corte dei Borboni, ad insegnare pittura alle principessine, affascinate dal suo talento. Aiutato da un occhio vivace e attento che non si limita a vagabondare per i vicoli di Napoli, per cogliere lo sguardo malinconico di un certosino che guarda incantato il Vesuvio, o i gesti sommessi e cadenzati delle pie donne intente a recitare il rosario avvolte dalla penombra delle chiese cittadine. Gigante va oltre, si lascia tentare dalla voce del mare, per trasmettere con la sua pittura l’amore per le isole del Golfo: Ischia e Capri. E sarà soprattutto quest’ultima a catturare l’attenzione dell’artista fin da giovanissimo, quando lavora al Real Officio Topografico, mentre frequenta lo studio del pittore tedesco Jacob Wilhelm Huber. è lui ad insegnare a Gigante l’utilizzo della “camera ottica”, una scatola di metallo che permette, attraverso un complesso gioco di specchi, di riprodurre un paesaggio definito da una linea nitida e precisa. Una conoscenza che si rafforza proprio grazie all’impiego presso il Real Officio, dove il giovane impara la tecnica dell’incisione e della litografia. è il 1821, un anno decisivo per la carriera del pittore, che si innamora di Capri, protagonista di una bella serie di vedute, che sono state esposte alla Villa Pignatelli di Napoli, in occasione della mostra I colori della Campania. Omaggio a Giacinto Gigante.

 

VEDUTE CAPRESI


Della sua amata isola l’artista realizza alcuni autentici capolavori, che occupano un posto di assoluto rilievo nella sua vasta produzione, come l’intensa Veduta di Capri (1830) dai toni sfumati, il disegno dedicato alla Grotta Azzurra (1832) e il profilo dell’isola visto in lontananza da Massalubrense (1845-50). «Uno dei suoi temi prediletti – scrive Raffaello Causa – è la veduta di Capri, scoperta dai pittori europei dell’Ottocento proprio grazie alle opere di Gigante». Una passione che non si limita all’osservazione della natura, ma coinvolge anche gli aspetti della vita quotidiana sull’isola, descritta in opere come le Falciatrici (1860) e il Suonatore di Chitarra (1856-60). Temi che Gigante tratta con morbida freschezza, divenuta più intensa nel suo più celebre capolavoro caprese, il Tramonto a Capri (1849). Un acquarello di piccole dimensioni ma di eccezionale intensità, carico di un’atmosfera intima, che va al di là del dato descrittivo per trasformare l’immagine in una visione vibrante e romantica. L’ennesima prova della sua capacità di interpretare il genius loci dell’isola in chiave sentimentale, tanto da meritarsi appieno il soprannome di “Turner napoletano”».

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