Regina di roccia
Per il poeta Pablo Neruda, l’isola è stata lo scenario di passioni ispiratrici
di Tullia G. Rizzotti
La prima cosa che vidi furono alberi, dirupi/decorati con fiori di selvaggia bellezza, terreni umidi, boschi che bruciavano e, dietro il mondo, l’inverno straripato». Questi versi suggestivi di Neruda non cantano, come potrebbe sembrare, l’immagine di Capri venuta incontro al poeta in una notte d’inverno, al suo sbarco sull’isola nel gennaio 1952 ma il ricordo della terra d’origine, il Cile, tracciato con forza vibrante nel poderoso Canto General.
Lunghi vagabondaggi «sotto i vulcani, accanto ai ghiacciai, fra i grandi laghi, nel fragrante, silenzioso, scarmigliato bosco cileno…» hanno plasmato fin da ragazzo l’animo di Neftali Ricardo Reyes Basoalto, finchè la poesia “viene a cercarlo” trasformandolo in Pablo Neruda. Ancora ignaro delle future, spesso forzate peregrinazioni per mezzo mondo, Neftali può osservare a proprio agio alberi, muschi, insetti, sviluppando soprattutto verso le piante quell’attenzione pittorica poi dipanata in parole a cantare la vita. A Capri Neruda ritrova nelle linee verticali dei dirupi, nella sagoma del Vesuvio all’orizzonte, nei canti melodiosi degli uccelli un’eco della terra natale e, soprattutto, la gioia dimenticata di libere passeggiate senza meta nel grande ventre della natura. Può abbandonarsi dopo tanti anni all’interesse per la botanica con l’appoggio di un eccezionale anfitrione: Edwin Cerio.
A Cerio si erano infatti rivolti nel dicembre del ’51 il pittore Renato Guttuso e i deputati Mario Alicata e Antonello Trombadori per organizzare al poeta, esule dal 1949 per motivi politici, un soggiorno secondo un suo preciso desiderio: Neruda desiderava ritirarsi a scrivere nella tranquillità di un’isola del Golfo di Napoli, Capri o Ischia.
I LUOGHI AMATI
Neruda non giunge solo a Capri. Lo accompagna Matilde Urrutia, il grande amore della sua vita, in quegli anni ancora compagna segreta, poi moglie dal 1955. Capri e la Casetta Arturo, generosamente messa a disposizione da Cerio, diventano la cornice di un’unione sempre più profonda. La vita offre una parentesi di gioia ai due innamorati raminghi, costretti ad inseguirsi tra l’America e l’Europa. Ed è finalmente la felicità di liberi vagabondaggi a due, alla scoperta dell’isola-rifugio del loro amore. Prima esplorano il giardino della Casetta, aperto sul golfo di Marina Piccola, «che scende verso il mare con le svelte lance dei cipressi». È inverno, a Capri, la stagione dei blu cupi e degli argenti magicamente dipinta da Diefenbach nelle grandi tele tempestose. «Il silenzio speciale di Capri che riempe tutto nell’isola, come una sostanza che si possa palpare tra le dita», accompagna la scoperta fanciullesca di stradine, scalinate, fitti giardini alberati, cortili racchiusi tra bianche case antiche, scorci di mare che spuntano all’improvviso. I giochi frastagliati delle rocce svelano i Faraglioni, le grotte, le spiaggette. Ad Anacapri la coppia si concede lunghi giri in carrozza, con il cavallo ornato di piume, nastri e sonagli, assaporando la semplicità agreste. E dalla cima del Monte Solaro, raggiunta con l’aerea seggiovia, Matilde diffonde nello spazio azzurro le onde sonore di canti cileni, intonati solo per il suo Pablo con la bella voce limpida di moderna sirena incantatrice dalla chioma di fuoco.
E poi ci sono i fiori: la gioia delle prime violette nel giardino della Casetta, un melo di un orto vicino «trasformato d’improvviso in cascata di stelle odorose», a cui i due innamorati si ripropongono di rubare la notte un ramo fiorito per portare anche dentro casa la primavera. Tra le pietre dei muri a secco Neruda osserva affascinato fiori che non conosce nella primavera che avanza, li raccoglie in un erbario o li offre alla sua Matilde. Un epistolario tra Neruda ed Edwin Cerio, spuntato a sorpresa molti anni dopo dalla biblioteca del Centro Caprense Ignazio Cerio (fondato dallo stesso Edwin), fissa nel tempo la frenesia di apprendere del poeta temporaneamente naturalista. Cerio gli è paziente maestro; gli dona piccoli frammenti di natura caprese (un insetto, conchiglie, testi da lui scritti) ed il poeta assicura che «leggerò tutto, sarò ricco a causa delle vostre conquiste» e ribadisce che «devo ancora rileggere il piccolo libro sui fiori e le piante. è qui che bisogna leggerlo». La sera Pablo e Matilde vanno a sedersi su una panchina alla rotonda-belvedere di Tragara, beandosi delle acrobazie dei gabbiani e del mutevole gioco di colori del mare, anche se l’esule, ricordando le onde impetuose del Pacifico, brontola: «Questo mare è troppo tranquillo! Non ha il profumo del nostro mare!» Ma quando a volte «il vento è un cavallo/(…) e corre/per il mare, per il cielo/(…)” l’esule riconosce la voce che lo “chiama galoppando/per portarlo lontano”. Supplica allora l’amata: “Nascondimi tra le tue braccia/(…) lascia che il vento passi/senza che possa portarmi via./Lascia che il vento corra/coronato di spuma».
Poco a poco Neruda e la sua donna scoprono quella «Capri recondita, dove si entra soltanto dopo un lungo pellegrinaggio e quando ormai l’etichetta di turista ti si è staccata di dosso». Il poeta entra nell’anima segreta dell’isola “regina di roccia”. Gli è familiare l’intima essenza della pietra, di cui egli stesso è impastato, e il suo dono di tenacia, fierezza, resistenza, leggibili sul viso dell’uomo della terra americana: l’indio dai lineamenti di roccia, vinto ma non piegato. Il suo cuore custodisce il ricordo del cuore dell’impero incaico «il trono di torrioni del Cuzco,(…)/le alte solitudini/di Macchu Picchu alla soglia del cielo,/immortale dimora costruita/con petali pesanti di granito». Ne riconosce il linguaggio nelle “torri orgogliose di pietra fiorita”, nelle «cime aspre che sostennero il mio amore e serberanno con mani implacabili l’impronta dei miei baci», dando anche al suo amore per Matilde il suggello dell’eternità.
UN ANELLO PER MATILDE
Così, dall’ideale “anello d’acqua” in cui Neruda racchiude in poesia il luogo dell’amore, l’isola dalla bellezza di pietra, nasce l’anello reale per Matilde, commissionato a un orefice caprese. Reca incisa all’interno la scritta: «Capri, 3 maggio 1952. Il tuo Capitano». è la data del matrimonio segreto.
Al momento Neruda è ancora legalmente legato alla pittrice argentina Delia del Carril, incontrata in Spagna al tempo della guerra civile. Rimorsi e rigurgiti di tenerezza per la sposa tradita accompagnano il crescere impetuoso dell’altro amore, riconosciuto definitivo. Per di più ora Matilde attende un figlio. Non potendola sposare subito davanti agli uomini il poeta vuole offrirle almeno un’unione simbolica altrettanto valida. Una sartina cuce l’abito di nozze, Neruda addobba la casa con festoni di foglie e fiori intrecciati personalmente. Quando la luna piena domina alta sul mare e la terrazza è tutta illuminata dal suo chiarore, conduce Matilde nell’irreale dimensione argentata. Al sorriso misterioso che li guarda dall’alto chiede di legarlo per sempre all’amata e, “benedetto” dai suoi raggi, infila l’anello al dito della “sposa”.
Non è solo un’invocazione romantica all’astro, ben noto ispiratore di tutti i poeti innamorati: è forse l’istintiva reminiscenza di “Mama Quilla”, la “madre luna” della cosmogonia incaica, divinizzazione e protezione del principio femminile. In ogni caso per i due “sposi” quell’originale matrimonio dal sapore pagano avrà valore per tutta la vita.
I DUE LIBRI CAPRESI
L’amore per Matilde e la bellezza del paesaggio di Capri sono uno stimolo inesauribile. Ogni giorno Neruda scrive febbrilmente, con inchiostro verde, fucsia e azzurro su foglietti sparsi. Matilde li raccoglie, li conserva gelosamente e ricopia a macchina i testi. Dal soggiorno caprese nascono due libri. Los versos del Capitàn racchiude la storia “dell’amore terribile che li ha incatenati”; Las uvas y el viento è il “figlio” dell’anima donato a Matilde per consolarla della perdita prematura del loro bambino. Canta “l’uomo nuovo”, i «milioni di figli nuovi che daranno la terra agli affamati», intrecciando al tema dell’amore per la sua donna l’altro grande amore della sua vita: quello per il popolo che soffre, a cominciare dall’originaria stirpe india delle Americhe, la «dolce razza, figlia dei monti, stirpe di torri e di turchese».
Capri non resta sfondo ma mescola la sua essenza a quella stessa delle creature. Così della sua donna il poeta può dire che «di mare e di terra ti costruii cantando.(…) La terra era piena/di grappoli sacri. Mare e terra nelle tue mani/esplodevano/con i doni maturi. (…) E così, la terra,/il fiore e il frutto, fosti,/così dal mare venivi».
Figlio di una terra precolombiana, in parte una volta compresa nell’impero Inca, e dei padri Araucani sterminati dai Conquistadores, già nel Canto General Neruda è penetrato sempre più a fondo nella fusione tra madre terra e uomo, tipica della cultura india, dove tutto è collegato in un grande abbraccio invisibile. Non si può recar danno, un singolo danno, senza che il tutto ne risenta e soffra. E ciò che di male l’uomo fa alla terra, lo fa a se stesso. Neruda lotterà sempre, servendo il popolo con l’azione e la poesia, non solo per ideali di giustizia, ma anche per contribuire a restituire un equilibrio all’universo turbato.
Viaggiando, vedendo e ascoltando con nel cuore la nostalgia dell’esule e “il suo amore lontano”, il poeta scopre che tutti i popoli sono uguali nelle loro aspirazioni più vere. E per accomunarli sceglie gli elementi della terra più semplici ed universali, così fondamentali anche a Capri e ormai racchiusi tra le mani di Matilde: le uve, volutamente plurali per sottolineare l’idea di estensione e di moltitudine, e il libero vento.
TRA UOMO E TERRA
La toccante sobrietà dei versi del Prologo e dell’Epilogo di Las uvas y el viento rivela l’anelito di Neruda ad un’armonia tra uomo e uomo, tra terra e uomo, dove l’essenziale è molto semplice ed eterno: «(..) Il meglio di una terra/e un’altra terra/io innalzai sulla mia bocca/col mio canto:/la libertà del vento,/la pace tra l’uva./Sembravano gli uomini/nemici,/ma la stessa notte/li copriva/ed era un solo chiarore/quello che li risvegliava:/il chiarore del mondo./(..) Tutti erano uguali./Tutti avevano occhi/rivolti alla luce, cercavano/le strade./Tutti avevano bocca,/cantavano/verso la primavera./Tutti./Per questo/io cercai fra l’uva/e il vento/il meglio degli uomini»1. «Dove sono stato, anche/nelle spine/che vollero ferirmi,/ho trovato che una colomba/cuciva/nel suo volo/il mio cuore con altri/cuori./Ho trovato dovunque/pane, vino, fuoco, mani,/tenerezza./Io ho dormito sotto tutte/le bandiere/riunite/come sotto i rami/di un solo bosco verde./(..) Come la terra,/io appartengo a tutti./Non c’è una sola goccia/di odio nel mio petto. Aperte/vanno le mie mani/spargendo l’uva/nel vento./(..) Che l’amore ci difenda./Che la terra/continui senza fine fiorita/a fiorire./(..) Che sia distribuito/ogni canto sulla terra./Che si innalzino i grappoli./Che li propaghi il vento./Così sia»2. 1 “Prologo” (Las uvas y el viento) 2 “Epilogo”(Las uvas y el viento)
IL SOGNO DI UN’ISOLA
È edito da La Conchiglia il bel libro di Teresa Cirillo, Neruda a Capri. Sogno di un’isola, una ricostruzione dei giorni trascorsi sull’isola dal poeta cileno basata su documenti e testimonianze in parte inediti e pubblicato a cinquant’anni dal soggiorno di Neruda a Capri. Teresa Cirillo è docente di Lingua e letteratura ispanoamericana nella facoltà di Lettere e filosofia dell’Università degli studi di Napoli L’Orientale.
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