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Sentinella del mare

Ama il silenzio e il canto dei gabbiani. È il guardiano del faro di Punta Carena che dalla sua torre rossa illumina la rotta di naviganti e marinai

di Antonello De Nicola

 

 

 

 

È la più solitaria delle sentinelle, sorveglia il mare dalla torre rossa che custodisce. È il più libero dei prigionieri, osserva i suoi anni migliori spegnersi nella lanterna che alimenta. Incastrato fra la linea verticale che lo sostiene e l’orizzonte che lo circonda, Carlo D’Oriano da sei anni illumina la rotta di marinai e navigatori. Non ha un volto da riconoscere in Piazzetta, non ha un campanello a cui suonare: per tutti è semplicemente il guardiano di Punta Carena. Una vita intera da raccontare in 149 scalini, senza mai guardare l’orologio, senza fare rumore e recitando la preghiera del marinaio: amare e temere il mare. C’è una sola domanda per un moderno Ulisse che, dopo 37 anni vissuti sul mare, smette di viaggiare e diventa egli stesso simbolo del viaggio: di cosa ha paura un uomo solo nelle notti di tempesta? «Non ho paura di nulla – risponde serenamente Carlo D’Oriano – vivo da solo ma ormai sono temprato. Il faro è la mia vita e il mio destino. L’inverno non passa mai, il tempo non passa mai. Di giorno, sono condannato a restare a Punta Carena, perché il faro di Capri è l’unico, insieme a quello di Ponza, a non avere copertura per il telecontrollo a distanza. Nelle notti di tempesta, le saette colpiscono il parafulmine ed il faro si illumina a giorno. Ma non c’è tempo per avere paura, devo attivare il gruppo elettrogeno nella sala motore. In caso di trombe d’aria o di mareggiate, le onde possono arrivare fino alla mia camera da letto, ad un’altezza di 25 metri. Le prime volte non riuscivo a dormire, poi le orecchie si sono abituate». Guardare sempre il medesimo orizzonte da una identica prospettiva e non stancarsi mai, significa cercare se stessi e trovare l’infinito. «Tutto il mondo è intorno a me e il mare è sempre diverso: le navi, i turisti, i miei pensieri e le storie da inventare leggendo un romanzo, osservando un pescatore immobile per ore o semplicemente il cappello di una turista sdraiata sul gozzo. Tra noi faristi ci sorvegliamo a distanza e di notte ci facciamo compagnia. La luce riflessa sulle rocce e il cicalio vicino al letto che mi segnala l’avaria del sistema, ormai fanno parte di me. Basti pensare che ho 15 giorni di ferie all’anno e resto sempre a Punta Carena». Quello di Carlo è davvero un miracolo semplice: riuscire a coltivare la sensibilità d’animo ed il rispetto del prossimo in un ambiente completamente isolato e privo di esseri umani. «Non ho orari, nessun aiuto, malattia o frattura che tenga – continua il farista – io guardo il mare e i carabinieri sorvegliano me. Bisogna salire a cambiare la lampadina, segnalare le luci all’ingresso del porto, offrire il primo soccorso ai naufraghi ed allertare la Capitaneria in caso di naviganti indisciplinati. Temo solo di condannare mia figlia alla solitudine. La confusione mi fa male, non posso più trattenermi in Piazzetta d’estate o andare a un concerto. Ma la mia non è una forma di panico. È solo amore per il silenzio e il canto dei gabbiani». Sulla pelle salmastra e nella voce profonda di Carlo, sembra quasi di indovinare la sensazione che anche il mare adesso abbia bisogno di respirare. «Il mare è la mia vita ed è legato ai miei ricordi più belli e più brutti, sin dai tempi in cui ero militare. Bisogna volergli bene per ricevere il meglio e rispettarlo con passione, altrimenti si ripercuote contro di te. Non bisogna mai sottovalutarlo». Dopo 20 anni nella base Nato di Gaeta come Nostromo, e una brillante carriera da Sottoufficiale della Capitaneria di Porto, tra navi da guerra e Guardia costiera, diventa aiuto farista e nel 2005 viene nominato reggente del faro di Capri. «Era il mio sogno da bambino. Fare il farista significa guardare il mare, dargli la luce e la sicurezza, garantire ai natanti piccoli o grandi che c’è una persona che li sta osservando e che illumina il loro percorso. Soprattutto con il mare in tempesta, è fondamentale vedere la luce da Punta Carena». Da cinque anni, Carlo D’Oriano è impegnato in un progetto di sensibilizzazione rivolto alle scolaresche e agli allievi del centro velico, nella speranza di trasmettere anche ai più giovani l’amore per il mare e per l’ambiente. «Mi restano altri tre anni prima della pensione, ma chiederò due anni di proroga. Vorrei restare qui o comunque ricominciare dal mare, magari a Formia. Del faro, mi mancherà l’acqua salata sulla faccia, l’immagine del pescatore che mi fissa. Bisogna esserci portati per fare questo mestiere, non soffrire di solitudine, essere capaci di stare bene con se stessi e, cosa più importante, saper fare di tutto. Ormai siamo rimasti in pochi – conclude il guardiano – ma anche se i fari sono quasi tutti automatizzati e le navi moderne sono dotate di un’avanzata strumentazione elettronica, siamo sempre un valido aiuto alla navigazione in caso di necessità o soprattutto per le piccole imbarcazioni ». Con ogni probabilità, Carlo appartiene all’ultima generazione di faristi. Quello del “segnalatore marittimo” è un mestiere in via di estinzione, minacciato dallo sviluppo della tecnica. In Francia, Stati Uniti e in Gran Bretagna, i fari sono tutti automatizzati e in Italia sono già più di trenta le torri di segnalazione telecomandate che non richiedono più l’intervento dell’uomo se non per la periodica attività di manutenzione. E così, inevitabilmente accadrà anche a Capri, nonostante a Punta Carena continuino ad arrivare turisti da tutto il mondo, attratti dal faro e da un mestiere così romantico.

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