foto04Tutti a bordo!

Alla scoperta dell’isola dal mare fra grotte, calette e spiagge famose

di Bruno Manfellotto

 

 

 

 

 

Consigliamo vivamente a chi avesse deciso di trascorrere a Capri un’ora o la vita intera di portare con sé almeno qualche pagina di Raffaele La Capria. Il mio, lo confesso, è un giudizio partigiano assai, non di critico ma di lettore appassionato, non solo un apprezzamento ma il ringraziamento sincero a chi più di ogni altro è riuscito a restituire sentimenti, passioni e atmosfere dell’isola: nessuno come lui ha saputo interpretarne così acutamente l’essenza profonda, stringerne in un unico abbraccio natura e cultura, bellezza e decadenza, vitalità e solitudine, passato e presente. Perché parlo di La Capria? Perché quando mi è stato chiesto di dimostrare che c’è un modo più originale, meno celebrato, più sincero di incontrare Capri – vederla dal mare o, addirittura, dal profondo del mare – il mio pensiero è corso immediatamente a lui, allo scrittore del lancinante Ferito a morte. Ho infatti fisso nella memoria, ma non saprei dirne né la data né l’occasione, un delizioso racconto scritto per il Corriere della Sera. Non ne ricordo nemmeno la trama, ma i protagonisti e l’atmosfera sì. Quelli erano un adolescente armato di fiocina e il fascinoso Scoglio delle Sirene che spunta nel bel mezzo della baia di Marina Piccola; e questa era un clima irripetibile, una sensazione sospesa che solo i ragazzi degli anni Sessanta che si tuffavano allora da quella roccia in quel mare possono comprendere e ricordare. Certo, intorno allo Scoglio aleggiano tuttora le antiche leggende greche e il ricordo dell’Odissea, e piace immaginare che le Sirene ammaliassero Ulisse lì e non tra Scilla e Cariddi o dinanzi al Circeo. Ma poco importa, in fondo. Il ragazzo di La Capria guizzava in quell’acqua trasparente senza sapere nulla, forse, né delle Sirene né di Ulisse; ma se alla fine, dopo aver nuotato e inseguito la preda la lascia andare al suo destino, è perché ha istintivamente compreso che c’è un solo modo di vivere l’isola: immedesimarsi con la sua natura possente e magnifica cercando di non turbarne l’equilibrio. è vero, molto tempo è passato e le frotte di turisti che sciamano lungo le stradine di Capri o invadono spiagge e scogli rende sempre più difficile, nelle poche ore o nei pochi giorni di una visita, costruire con essa un rapporto autentico. Eppure, per quanto possa sembrare arduo, è ancora possibile vivere sensazioni uniche e vivere il mare con la stessa leggerezza del ragazzo di La Capria: basta leggere quelle pagine, coglierne lo spirito e portarselo appresso, come un compagno di viaggio. Magari vagando in barca di cala in cala o scendendo con le bombole sotto i Faraglioni. Per girare l’isola non c’è che l’imbarazzo della scelta: al porto di Marina Grande si può decidere tra gite organizzate, barchette a remi, gommoni a motore e gozzi di ogni misura. Poi basta mettersi in mare con una guida del posto, o semplicemente – se si ha un po’ di dimestichezza con le onde e i fuoribordo – seguendo la costa ed esplorando ogni anfratto. In un paio d’ore – ma in mare, si sa, il tempo ha i ritmi che scegliamo noi – si può fare il giro intero e vedere tutto ciò che c’è da vedere. Il consiglio è di circumnavigare in direzione opposta a quella classica, cioè andando verso est lasciandosi per ultimi i Bagni di Tiberio e la Spiaggia di Marina Grande (per capire il perché è necessario arrivare alla fine di questa breve guida…) e di scegliere, per farlo, l’inizio o la fine dell’estate, giugno o settembre. Non è solo una questione di folla e di caldo, ma di luce: provare per credere. Lasciata Marina Grande, dunque, si procede lungo la spiaggia della Marina di Caterola (che spiaggia non era e che è diventata tale solo una trentina d’anni fa dopo la prima di molte frane venute giù dall’altissimo costone roccioso), per poi incrociare, isolato e staccato dalla costa, lo Scoglio della Ricotta: basta guardarlo per rendersi conto che il nome non è poi così originale. Poco distante si apre la Grotta del Bove Marino dedicata a un animale quasi leggendario di cui si ha traccia in qualche cronaca solo fino alla fine dell’Ottocento. Doppiata la Punta del Capo – che negli anni eroici della Capri del Grand Tour era l’approdo della misteriosa e tenebrosa Villa Fersen – subito appare alla vista il pauroso Salto di Tiberio: lassù la Villa dell’imperatore, qui sotto il mare blu cobalto che sprofonda rapidamente fino a 50 metri. La roccia prosegue alta e impervia fino alla Punta della Chiavica dopo la quale si apre la Baia di Matermania, dedicata alla “mater magna”, cioè a Cibele madre degli dei e delle messi. Lassù, l’Arco Naturale e la Grotta di Matermania. La baia, ampia e verde, è bellissima: la roccia precipita da duecento metri verso il mare e franando negli anni sotto i colpi dell’acqua e del vento ha formato sotto la superficie del mare un labirinto di grotte e cunicoli. In mezzo all’insenatura, lo scoglio della Sementella; sulla costa, tante piccole grotte e le imponenti Grotta Bianca e Grotta Meravigliosa: alla prima si arriva dal mare, all’altra grazie a un approdo e a una scaletta; entrambe offrono lo spettacolo sorprendente di formazioni di stalattiti cui il colore del mare offre insoliti riflessi. Nessuna isola al mondo, comunque, offre le sorprese che Capri riserva al visitatore che la scopra dal mare. C’è da qualche altra parte una roccia ricoperta di pini come la Punta Massullo che chiude la baia di Matermania? E vi aspettereste forse che in cima a quello scoglio, distesa come una bella donna, rossa come il sole al tramonto, arrogante nella sua splendida originalità, sorga unica e irripetibile la Villa Malaparte? La guardate e la riguardate e non riesce a offendervi che si sia costruito sulla roccia, a picco sul mare, in uno dei posti più belli del mondo. Sembra che la casa stia lì da sempre, tutt’uno con l’isola, perfettamente coerente al suo spirito. Quasi un miracolo di perfezione architettonica e di intuizione. E come se non bastasse, attraversata la Cala del Fico, ecco la Punta di Tragara, lo scoglio del Monacone, e gli incredibili Faraglioni. Fermate la barca, fate un bagno qui e uno lì, girate intorno allo scoglio e poi ripassate di nuovo sotto Villa Malaparte… Se poi aveste voglia di riprendere muta e bombole, suggeriamo due immersioni. La prima, più accessibile, è l’affascinante discesa lungo la parete sommersa dei Faraglioni. La roccia cala subito a strapiombo, unici sono i colori e folta è la vegetazione, non mancano le tane dei saraghi e delle corvine. Un po’ più impegnativo è tuffarsi sotto la Punta Tiberio, ma davvero ne vale la pena: la corrente è forte, ma i ventagli di gorgonie sono indimenticabili. Lasciata la rada di Tragara, da cui si gode lo scorcio di Punta della Campanella e degli isolotti dei Galli, si entra nella grande baia di Marina Piccola che si estende fino all’estrema Punta del Mulo. Ecco in alto il Castiglione e l’ardita via Krupp che dai Giardini di Augusto raggiunge tortuosamente il mare. Qui si affaccia la Grotta dell’Arsenale – che i libri ci rimandano come tempio e ninfeo nell’età imperiale – e, proprio sotto la Certosa di San Giacomo, la Grotta Oscura, ostruita da una frana duecento anni fa e che le leggende descrivono come ancora più bella e affascinante della celebratissima Grotta Azzurra. E prima di lasciare la baia ci si può tuffare, come il ragazzo di La Capria, dallo Scoglio delle Sirene (ma solo fuori stagione). Alla dolcezza di Marina Piccola – dalla cui roccia spuntano, immerse nel verde, le splendide ville di via Tragara – segue, cambiando totalmente registro, la costa alta e punteggiata di pini sotto la quale si apre Cala Ventroso: in alto la sommità del Monte Solaro, in basso due spiaggette facilmente raggiungibili a nuoto. Doppiata la Punta Ventroso, siamo già sotto le case di Anacapri: ecco Cala Marmolata sulla quale si aprono la Grotta Verde, la Rossa (è bello guardare giù con la maschera le alghe e i rossi fiori marini che le danno il nome) e quella dei Santi mentre il mare scende giù giù fino a 50-60 metri; su tutto domina, dalla Punta del Tuono, il Belvedere della Migliara. Da qui in avanti, dal faro di Punta Carena a Punta dell’Arcera, la costa procede più dolce e tranquilla: vale la pena di fermarsi alla Cala del Tombosiello (ma tutti la chiamano Cala di Limmo) e, soprattutto, a Cala del Rio, ampia, disseminata di insenature, dai fondali di roccia e sabbia. Guardando in alto, tra le belle ville, ancora i filari di vite, qualche sparso casolare di campagna e qualche superstite capretta selvatica. Poi l’ultimo tratto di costa e di mare lungo il versante settentrionale dell’isola, superando Punta Vivara, Punta Gradola e Palazzo a Mare, prima di rientrare a Marina Grande. Ma non dimenticando di fermarsi alla Grotta Azzurra. Perché, è proprio indispensabile farlo? Qualche anno fa, recensendo una nuova edizione della Scoperta della Grotta Azzurra nell’isola di Capri di Augusto Kopisch, lo studioso tedesco che la scoprì nel 1826 e la rese famosa nel mondo, Raffaele La Capria si pose la stessa domanda. Ecco come si rispose. «È possibile oggi entrando nella Grotta Azzurra, provare ancora qualcosa dell’emozione che assalì il suo primo scopritore? Ho voluto fare l’esperimento. Ho preso una barca e sono andato un pomeriggio, quando stava per scadere l’ora delle visite turistiche alla grotta. Erano anni che non ci tornavo. Nel tratto di mare davanti all’ingresso c’era una ressa di barche, cariche come autobus, che aspettavano il turno. Barche più piccole e sottili a ritmo velocissimo caricavano quattro o cinque persone prelevandole dai barconi ed entravano ed uscivano ininterrottamente dalla stretta apertura: tra gli strilli, le esclamazioni, i gridolini dei turisti. C’erano svedesi, giapponesi, francesi, gente di tutte le razze, ma in quel momento tutti uguali, ognuno col suo cappellino di paglia o di pezza, in prevalenza anziani, pazienti sotto il sole, e un po’ smarriti di dover realizzare in modo così spiccio e impoetidescribe co il sogno che sul dépliant turistico pareva così bello. Stavo per andar via, ma le ultime barche, esaurita la visita, si allontanavano in corteo con il loro carico di stralunati turisti. Ero rimasto solo davanti alla grotta. Allora sono entrato e dopo qualche momento ho visto l’azzurro. Saliva vivido dal fondo diradando l’oscurità del primo impatto e attraversava il buio come il fascio di luce di un riflettore. Mi parve che un immenso occhio marino mi avvolgesse in uno sguardo radioso. Ero stato ammesso nella parte più segreta dell’isola, là dove batte il suo cuore azzurro. Come un moscerino attratto dai fari di un’auto mi tuffai in quell’azzurro fluorescente. Le mie gambe muovendosi lo attizzavano come si attizza una brace e a ogni movimento l’azzurro si ravvivava e divampava, gocce azzurre cadevano dalle mie braccia e innumerevoli solchi segnavano l’acqua sovrapponendo azzurro ad azzurro con tonalità di diversa trasparenza come quando si muove il pennello in un grammo di colore. Durò poco, è vero, ma emozione o illusione, nonostante tutto, c’erano state, e l’esperimento poteva dirsi riuscito». Qualche anno fa, ripensando a La Capria, fermai la barca dinanzi alla Grotta poco dopo le cinque del pomeriggio o quando, chiusi i botteghini galleggianti, turisti e barcaioli se ne tornano verso Marina Grande. Il sole scendeva e la luce, radente, sfiorava l’acqua. Quando l’ultimo visitatore si allontanò mi tuffai dalla barca con mio figlio, un ragazzo che aveva l’età di quel ragazzo di La Capria, la stessa che avevo io la prima volta che vidi la Grotta. Vi entrammo a nuoto, con bracciate lente e silenziose. Galleggiammo increduli nell’azzurro. Per me era una felicità ritrovata, per lui un caldo rito di iniziazione.

 

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