foto05Nelle braccia di Donna Lucia

Aperta, sensibile e ospitale. Alla fine dell’Ottocento Lucia Morgano trasformò una locanda in un simbolo di Capri

di Bruno Manfellotto

 

 

 

 

Si arrivava sull’isola con la gioia nel cuore, quella di chi riesca ad appagare un sogno: la conquista di una meta a lungo inseguita, l’inizio di una nuova vita. Ma si sbarcava anche stanchi, provati dall’aver lasciato il Nord, attraversato l’Europa e l’Italia, affrontato il mare. Al viaggiatore dell’Ottocento, Capri appariva dunque come il porto sereno, con la roccia chiara, le casette bianche, la campagna che saliva rigogliosa verso il monte… E finalmente, la Piazzetta: gli scugnizzi laceri e petulanti che lasciavano i gradoni della chiesa per implorare l’elemosina, le donne che s’avvicinavano per incaricarsi dei bagagli e gli uomini per indicare un letto e un bagno caldo… Passato uno dei due archi che chiudono la piazza più famosa del mondo, dinanzi al forestiero la stradina si faceva ripida per allargarsi subito dopo in un piccolo spiazzo. Qui, sulla sinistra, lungo la via Hohenzollern – oggi via Vittorio Emanuele, per i capresi più semplicemente “la via del Quisisana” – s’apriva, tra luci e una terrazza, la più famosa, frequentata e celebrata locanda del Bel Paese. Accogliente. Calda. Bizzarra. Affascinante. Il regno di Giuseppe Morgano. E di sua moglie, la bella Lucia. Tanto bella che – si favoleggia – c’era chi affrontava le fatiche del Grand Tour solo per vedere lei. Ma già il fondale scenico che si presentava al passante valeva il viaggio. Le tre diverse insegne indicavano la geniale commistione del luogo: “Birreria di Monaco”, ma anche “Anglo American Store” e soprattutto – fantasioso “brand” ante litteram – Zum Kater Hiddigeigei, Al Gatto Hiddigeigei, il protagonista di un lezioso poemetto di un giovane scrittore tedesco ormai caprese d’adozione, Victor von Scheffel. Le vetrine luccicanti ostentavano quadri a grappoli, bottiglie, libri, coloniali. Dentro, qualche piccolo tavolino sparso e un unico, promiscuo tavolone intorno a cui potevano sedere una ventina di avventori. Su tutto dominava lei, Donna Lucia: se ne stava dietro il bancone, o s’aggirava sorridente tra un ospite e l’altro. Nata e cresciuta sulle esigenze degli stranieri, la locanda offriva tè e birra, liquori e caffè, qualcosa da mangiare e giornali tedeschi e inglesi da leggere, un letto e un alloggio. Ed era qui che si doveva fare capo per incontrare gli amici, ma anche per trovare, che so? una barca o una casa, per cambiare un assegno in marchi o magari per farsi prestare un po’ di soldi. Pub. Bazar. Rifugio. Confessionale. Eppure, non basta nemmeno questa indispensabilità del luogo a spiegarne il fascino, né a misurarne il successo e tanto meno a giustificarne il mito. Cos’è, dunque, che ha fatto di quel locale – e fa ancora oggi che non c’è più – uno dei simboli di Capri? E di Donna Lucia la più compiuta espressione del femminino isolano? La verità è che i Morgano, con il loro straordinario Zum Kater, hanno finito per identificarsi pienamente con la vecchia Capri, quella consegnata ormai solo ai libri di storia, a qualche vecchio baedeker e ad album di foto ingiallite. La Capri della prima ondata di francesi e tedeschi, del Grand Tour colto ed esigente figlio della riscoperta del classicismo, del romanticismo, del naturalismo in filosofia e del vedutismo in pittura. L’isola che scrittori, poeti e pittori scoprivano nella seconda metà dell’Ottocento, era abitata da pescatori e contadini poveri e analfabeti: bisognerà aspettare il 1906 perché un parroco lungimirante, don Giuseppe De Nardis, vi faccia arrivare un gruppo di suorine di Santa Elisabetta che, preso alloggio nei pressi della Certosa, cominciarono a diffondere i primi rudimenti del leggere e scrivere. I borghi erano separati l’uno dall’altro, e la strada tra Capri e Anacapri – da sempre antagonisti – sarà aperta nel 1875: unico collegamento fino ad allora, l’ardua Scala Fenicia. In quanto alla funicolare tra il porto e il paese, sarà inaugurata solo nel 1907. Lasciata dunque la Piazzetta e superato Palazzo Ferraro, il gran bazar di Donna Lucia era subito lì, sulla sinistra (dove oggi sono in mostra le scarpe e i vestiti di Ferragamo). Poco più giù, la campagna avvolgeva la strada di Tragara che si spingeva pianeggiante fino a dove ora si stende, a picco sui Faraglioni, uno dei più straordinari belvedere del mondo. Un piccolo chiosco dava da bere a chi vi si avventurasse. Due sole famiglie – i Federico e gli Esposito – si dividevano tutti i terreni della zona, gli uni quelli a monte, gli altri quelli a valle. Non immaginavano nemmeno lontanamente di sedere su una miniera d’oro. E due sole famiglie di albergatori, protagonisti del primo boom turistico dell’isola – i Serena, poi proprietari del Quisisana, e i Pagano – si spartivano invece il potere politico, clericali i primi, anticlericali i secondi (con questi parteggiavano anche i Morgano). La storia di Capri subisce una svolta intorno a due date. È il 1853 quando vi sbarca un giovane tedesco, Ferdinand Gregorovius, il primo a esaltare l’“idillio mediterraneo” dell’isola, a raccontarne i luoghi e i miti in una guida (Die Insel Capri) che diventerà il livre de chevet di tanti politici e intellettuali. Ed è il 1890 (James Money, Capri, la storia e i suoi protagonisti, Rusconi) quando un altro artista tedesco, Christian Wilhelm Allers, acquista dagli Esposito una fetta di terra nella parte alta di Tragara. Costruirà, e arrederà da par suo, la sorprendente Villa Allers aprendola ai viaggiatori tedeschi. E anche a tanti, disponibili ragazzi dell’isola… Disegnatore raffinatissimo, i suoi schizzi che illustrano minuziosamente ogni strada, ogni chiesa, ogni angolo di mare faranno il giro d’Europa. Nella seconda metà dell’Ottocento i turisti sono appena quattrocento l’anno, ma la colonia straniera che ha scelto questo come luogo dell’anima è sempre folta. Perché vengono? Che cosa cercano? E che cosa trovano? Difficile, naturalmente, sintetizzare centocinquant’anni di mito e il lavoro di decine di appassionati che ne hanno studiato il mistero. Una prima risposta si può appena abbozzare. In quegli anni, certo, è già esplosa la leggenda di una vita eccessiva, libertaria, eterodossa. Vero. Ma chi arriva qui scopre presto di essere entrato in un mondo sospeso, di vivere in un’atmosfera leggera, dissacrante, un po’ folle. Che dà a tanti intellettuali inquieti la forza per affrontare (o far finta di ignorare) la profonda rivoluzione che sta cambiando il volto dell’Europa. Tornare alla natura, lasciarsi avvolgere dall’isola madre, in qualche modo ferma il tempo, allontana la resa dei conti, rimanda il momento della verità. è il prolungamento di una giovinezza spensierata. Le due comunità, caprese e dei forestieri, vivono come separate dalla lingua, dall’abissale divario economico, dalle abitudini e dalla cultura. C’è un unico punto d’incontro, lo Zum Kater, e una sola donna capace di tenere insieme due mondi apparentemente così distanti: Donna Lucia. Lei e il marito intuiscono che l’isola sta cambiando e con straordinaria duttilità vi si adeguano e incoraggiano il mutamento. Giuseppe Morgano – come informano Riccardo Esposito e Dieter Richter, che più di altri hanno indagato su questo indelebile mito caprese (Donna Lucia Morgano e lo Zum Kater Hiddigeigei, Edizioni La Conchiglia) – era il nipote del factotum di sir Hudson Lowe, il governatore della colonia inglese che aveva fortificato l’isola alla fine del Settecento. E tracciandone un ritratto nella sua storia dei Borboni di Napoli, l’ammiraglio Acton annota che nel 1808, in vista della battaglia con Gioacchino Murat che minacciava l’isola, Lowe si era rifornito, oltre che di armi e munizioni anche di «quattro dozzine di bottiglie di champagne, tre dozzine di bottiglie di Borgogna vecchio di almeno tre anni, sei dozzine di Frontignan e altri vini eccellenti…». Se dunque fu in grado di resistere a lungo agli assalti, alla fine vincenti, della marina napoleonica lo dovette anche alle sue dispense. Ma se queste erano ricolme d’ogni ben di Dio il merito, forse, era di nonno Nicola. Probabile dunque che proprio da lui Giuseppe abbia ereditato la difficile arte, come dire?, del trovarobe: andava e veniva dalla terraferma portando con sé tutto quello che poteva servire. Da uno di questi viaggi, il giovane Morgano tornò anche con una moglie, la seconda, la bellissima Lucia “dagli occhi di fiamma”. Dimostrando, anche nella scelta di una compagna “furastera”, una non comune apertura mentale. Anche a Capri, come in tanti altri luoghi del sud matriarcale, sono le donne a menare la danza. In quegli anni, appena giù dalla nave, erano le donne a strappare borse e valige dalle mani dei viaggiatori. E donne erano le tessitrici di tele e sete. Donne quelle che arrancavano – la legna o le anfore d’acqua sul capo – lungo la Scala Fenicia, e le belle danzatrici di tarantella che ogni tanto irrompevano anche nello Zum Kater. E senza le sue straordinarie donne – senza la cucina di Gemma, il sorriso di Assunta Iacono, l’ospitalità di Titina Vuotto – che cosa sarebbe stata la Capri del dopoguerra? Molto presto, dunque, è Lucia a prendere le redini della locanda, genius loci e – si direbbe oggi – vivace “pierre” di se stessa; discreta consigliera e saggia mediatrice, stabile punto di riferimento e, se necessario, perfino solare “commare” di nozze. Che fosse bella, s’è detto, anche se col tempo s’era fatta matronale (si legga la straordinaria descrizione che ne fa Somerset Maugham nel Mangiatore di loto, in parte ambientato nello Zum Kater). Ma questo certo non basta a spiegare come abbia affascinato, e spinto a scriverne o a ritrarla, Gorky e Rilke, Fersen e Compton Mc Kenzie (che ne fece una dea del suo Vestal Fire), Walter Benjamin e Alberto Savinio, Goffredo Sinibaldi, August Weber e Roger Peyrefitte, che ai suoi tavoli si sono seduti facendone il crocevia della politica e della cultura del tempo. Evidentemente c’era in lei un fascinoso impasto di astuzia, tolleranza e disponibilità. In lei si esalta, per esempio, la capacità tutta caprese di trasformare l’innata ospitalità in impresa: da una parte donava servizi di qualità, dall’altra incassava con leggerezza, col sorriso sulle labbra. Massimo impegno ben pagato, mai sciatteria. Senza contare che da chez Lucia si mangia, si beve, si legge, si chiacchiera, ma si viene anche a bussare se serve una casa, una domestica, una cuoca, un capomastro per riparare un tetto, un giardiniere per potare le ortensie. E a tutto c’è sempre una risposta. Sotto il suo occhio vigile si intrecciano amori e relazioni. Spesso licenziosi, sfrontati, estremi come voleva il costume dei viaggiatori dell’epoca. Attenta, pronta, è lei, per esempio, a consigliare a Fersen di lasciare per un po’ l’isola dopo un tragico incidente in cui perde la vita un operaio che lavorava a Villa Lysis. è ancora lei a informare Allers che la polizia sta indagando sulle feste troppo vivaci che si tengono a Tragara, che sono stati già interrogati due scugnizzi dai soprannomi inequivocabili, “Mieza Recchia” (non proprio “ricchione”, un po’ e un po’…) e “Miezo Culillo”. Allers capirà l’antifona e se ne andrà lontano, alle isole Samoa. E Lucia diventerà presto la dea protettrice degli eccentrici e dei trasgressori, disposta a dare una mano anche a chi, dopo qualche eccesso, abbia passato una notte in gattabuia. Un po’ madre, un po’ complice. Ospitale e imprenditrice. Tollerante. Aperta. Sensibile. Se tutto questo è la “capresità”, Donna Lucia ne rappresenta a pieno titolo il simbolo più robusto. E forse per questo la sua immagine resiste al tempo e alle mode. Qualcuno ha paragonato la sua locanda al Caffè Greco nella Roma degli anni Quaranta e Cinquanta. No, c’è qualcosa di più e di diverso. Allora si affrontava un lungo viaggio quasi fosse la ricerca della verità e dell’essenza più profonda della natura, e si pensava che Capri, come una Sirena che sorge dal mare, ne fosse l’espressione più alta e sincera. In questo senso l’isola era allora il centro del mondo intellettualmente più vivace e travagliato. E al centro del centro del mondo c’era lei, Lucia Morgano, viva e fiammeggiante, pronta ad accoglierti come una madre generosa. Si finiva nelle sue braccia quasi si volesse resistere alla catastrofe che stava per sconvolgere l’Europa, cioè il mondo. Non si sa con precisione quando la locanda avesse aperto i battenti, 1880 o giù di lì. Ma si sa che nel 1923, alla morte di Giuseppe, Donna Lucia la cedette a un emigrato tornato a casa ricco: da lui sentiva parlare per la prima volta una strana lingua italoamericana, dopo tanti anni di italotedesco masticato davanti a una birra. Un’epoca se ne andava, un’altra se ne apriva. Da allora Lucia si chiuse in casa per morirvi nel 1943. E il Grand Tour sarebbe stato soppiantato dalla Great Hollywood.

Ma questa è un’altra storia.

 

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