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Diefenbach

Naturista e teosofo, il pittore tedesco fuggito dal mondo borghese scelse Capri come rifugio. A 100 anni dalla scomparsa il suo nome e la sua fama ancora aleggiano sull’isola

di Antonella Basilico Pisaturo

 

 

 

Il 15 dicembre 1913 si spegneva a Capri Karl Wilhelm Diefenbach.

L’artista tedesco vi era giunto quasi per caso quando, di passaggio da Napoli, aveva accettato l’invito ad un ballo organizzato dal pittore Christian Allers, nella sua villa a Tragara, per gli artisti stranieri presenti sull’isola.

Aveva cinquant’anni, una vita travagliata alle spalle fatta di abusi, patemi, insoddisfazioni, ed era alla continua ricerca di un luogo dove trovare finalmente la pace e poter esprimere liberamente le proprie teorie in comunione con la natura.

Capri, lussureggiante e ospitale, misteriosa e inquietante, evocava proprio quel sentimento del sublime che egli ricercava e ricreava nelle sue opere, e l’atmosfera e lo stile di vita dell’isola gli consentivano di vivere liberamente, al di fuori da ogni schema e al di sopra di ogni regola. Così decise che quello sarebbe stato il porto sicuro della sua maturità, il luogo dove trascorrere il resto della vita: «Capri mi basterà per tutta la vita con queste aspre rupi che adoro, con questo mare tremendo e bellissimo…».

Diefenbach era nato ad Hadamar, cittadina dell’Assia, capitale del granducato di Nassau, il 21 febbraio 1851. La sua giovinezza era stata costellata da continui trasferimenti proprio per quella atavica insofferenza delle regole che caratterizzavano il personaggio e che lo spingevano ad opporsi alle rigide convenzioni dell’ambiente borghese in cui era calato. Iniziò così, ben presto, a predicare per le strade «pace e fratellanza universale e un ritorno a una vita semplice, a contatto con la natura». Per questa sua teoria fu acclamato come un nuovo profeta e seguito da una folta schiera di proseliti ma incorse anche nell’accusa di sobillare gli animi per istigarli alla ribellione per cui gli fu vietato di parlare in pubblico. Aveva scelto di praticare il nudismo e il vegetarianismo, principi che ben si accordavano con l’attuazione della dottrina teosofica di cui fu un convinto assertore.

Secondo tale dottrina, l’uomo moderno doveva cercare di liberarsi da una visione materialistica della vita per ritornare alle fonti dell’antica sapienza e ciò prevedeva un percorso iniziatico basato, soprattutto, su esperienze medianiche e visioni personali.

E proprio Capri era ritenuta dai teosofici uno dei luoghi più idonei per la realizzazione di questo ideale di vita basato sulla purezza per cui quando nel 1900 Diefenbach sbarca sull’isola, capisce di essere giunto alla meta, di aver finalmente solcato la soglia di quell’Eden lungamente cercato e ancor più fortemente vagheggiato.

L’isola era in quegli anni, come testimonia Lea Vergine, «il polo magnetico, il punto di confluenza, la tappa obbligata, il luogo geometrico di amicizie e congedi dei più disparati destini, cardine attorno al quale ha ruotato grandissima parte della cultura e della politica dal 1905 al 1935, tanto per mettere a fuoco un periodo aureo che oggi sembra arcaico ma il cui senso non ha cessato di lasciare aspettative».

E Diefenbach rappresenta, sicuramente, un momento significativo della vicenda culturale di Capri. Esponente del tardo romanticismo tedesco, egli traspone nelle sue opere il senso cosmico della natura, il sentimento religioso dell’infinito, lasciando riaffiorare le paure e i fantasmi della sua psiche.

Lo studio del pittore si trovava vicino alla Piazzetta, in una posizione strategica, i turisti che giungevano a Capri venivano accolti sulla terrazza della funicolare dall’artista che con “gesto messianico” li invitava ad entrare dietro pagamento nel suo studio, esortandoli a comprare le sue opere e nello stesso tempo a osservare i principi del suo credo religioso. Vestiva con un semplice saio bianco, portava i capelli lunghi lasciati incolti sulle spalle e girava sempre a piedi nudi, sia in estate che in inverno. Tutto ciò, unito a comportamenti non sempre ortodossi ma suffragati da un forte carisma, contribuì a creare un alone di mistero e a dar vita ad una vera e propria leggenda intorno alla sua figura. L’originalità del carattere si rifletteva nella pittura che attraverso continue sperimentazioni si traduceva in una sorta di viaggio alla ricerca della verità identificabile come percezione di Dio, un processo di penetrazione all’interno della natura che portava al raggiungimento dell’estasi.

I soggetti di Diefenbach, trasferiti nel dominio dei simboli, trascendono qualsiasi consistenza storica per distendersi nel racconto di un mondo cercato, vagheggiato, ma ormai ricordo irrimediabilmente perduto. La realtà in cui è annullato ogni rapporto spazio-tempo è pensata dall’artista come velo della verità: in essa l’uomo può cercare di collegare le cose solo con i sensi, con l’analogia e la metafora oppure facendo ricorso frequentemente all’allegoria. Non c’è più collegamento spontaneo e necessario tra l’io e il tutto, ma i rapporti tra le cose sono solo relativi.

Nella sua tematica espressione del sublime, del misterioso e dello sconosciuto si configura infatti la funzione che egli attribuisce alla pittura, una funzione magico-religiosa in cui il dato pittorico si identifica con l’esperienza del sacro. Ma non sono solo la natura selvaggia dell’isola, le sue aspre rupi e i suoi scorci suggestivi e drammatici i soggetti ricorrenti nelle sue opere, ma i dipinti si caratterizzano anche per la presenza di eteree figure femminili spesso dalle bizzarre forme mitologiche. La donna di Diefenbach è una donna misteriosa, inquietante, senza spazio e senza tempo, un’esile figurina guizzante nel vuoto che evoca la spiritualità femminile, avendo perso ogni riferimento alla materialità e alla fisicità, forme esangui smarrite in un universo sconfinato, complicato e inafferrabile.

Anche nella sfinge, altro personaggio ricorrente nella sua tematica, c’è un chiaro riferimento alla donna intesa come mistero ed enigma, perché in essa si fondono i due elementi della terra (il leone) e dell’aria (le ali).

Indubbiamente, le opere di Diefenbach presentano qualche iniziale difficoltà di lettura perché l’artista sembra interrompere, almeno superficialmente, la comunicazione tra il fruitore e l’opera, la trasfigurazione del dato sensibile è, infatti, potentissima, ma la trasgressione e la violazione della realtà permettono di percepire una “realtà altra” che non è semplicemente quella percepita dai sensi.

Chi guarda le sue opere non può fruirne come testimone passivo, ma è chiamato a compiere un atto psichico, a mettere cioè in moto le proprie sensazioni ed emozioni per attuare quel processo di immedesimazione con l’atto creativo dell’artista.

L’effetto di grande impatto emotivo dei suoi dipinti è ulteriormente accentuato dalle notevoli dimensioni delle tele e dall’uso di nuove tecniche pittoriche, quali il bitume e il nerofumo. Il risultato pittorico è una materia densa e pesante, spesso soggetta a forti screpolature, l’esasperazione dei timbri cromatici con forti variazioni che vanno dalle terre bruciate ai rossi, ai toni dei verdi puri e dei cupi azzurri illuminati talvolta da violenti bagliori di luce, amplificano la follia visionaria: sono visioni che custodite nella mente finiscono per essere proiettate sulla tela come in una messinscena teatrale, ma tali da sembrare vere.

 

Il Museo Diefenbach

Capri ha reso omaggio al genio artistico di Karl Wilhelm Diefenbach dedicandogli, dal 1974, uno spazio espositivo permanente nel Museo della Certosa. Nelle austere sale del museo le grandi e suggestive tele dell’artista hanno trovato la loro giusta collocazione, tanto che i dipinti sembrano sostituire le pareti stesse, trasformando lo spazio reale in uno scenario visionario e simbolico. Nei prossimi mesi la Soprintendenza, in occasione delle celebrazioni per l’anniversario dell’artista inaugurerà, dopo un restauro dell’ambiente, un riallestimento del Museo.

 

 

Scatti d’autore

incontro con Francesco Jodice

di Silvia Baldassarre

 

«È stato Diefenbach il pretesto per vedere Capri in un modo nuovo, scavando sotto la serenità dell’isola perché la penso sempre come un luogo che produce un vantaggioso stato del caos ed è quello che ho cercato di riprodurre». Un percorso di ricostruzione quello di Francesco Jodice, fotografo classe 1967 di origine napoletana, che parte dalla decostruzione per riportare alla luce immagini ed emozioni dell’isola. Un lavoro – in mostra dal 24 agosto nelle sale della Certosa di San Giacomo – che non cerca di costruire un’immagine completa di Capri, ma usa l’isola come pretesto, come paradigma civile per porre delle domande. «Nelle mie fotografie, nelle istallazioni, nei film che realizzo – spiega il fotografo – cerco sempre di costringere lo spettatore ad un coinvolgimento. Anche per la mia formazione penso alla fotografia come partecipazione».

Cosa sto guardando? Si chiede l’osservatore davanti alle immagini, alcune delle quali stampate a grandissime dimensioni che fanno esplodere particolari e dettagli. E la risposta arriva solo dalla lettura complessiva dell’allestimento che si compone di tre elementi; il primo è uno studio su Diefenbach che Jodice ha compiuto “inoltrandosi” nelle sue opere con l’intento di rileggere porzioni di paesaggio: «Sono entrato nelle tele con il banco ottico ancora in pellicola (dispositivo che ricalca i primi modelli di macchina fotografica, ndr). Questo strumento permette una lettura del soggetto molto ampia costringendo l’artista ad una estrema lentezza, consente quindi di metabolizzare ciò che si vede per poi dare forma alle idee che si vogliono portare in superficie». Ne sono scaturire porzioni di opere del pittore tedesco deformate e rilette con i criteri della contemporaneità, facendo emergere la grandissima intensità dei soggetti di Diefenbach.

Accanto a queste immagini, riprese con lo stesso approccio sistematico, si trovano le riproduzioni di una serie di luoghi di Capri, scoperti percorrendo a piedi le strade dell’isola, percorsi intrapresi non tanto per ricercare i soggetti espressi dal pittore nell’Ottocento, ma per far emergere dal linguaggio fotografico gli stessi umori intensi e violenti che compaiono dalla riproduzione del mare in tempesta, delle grotte e dei boschi di Diefenbach. Dalle immagini di Francesco Jodice non si riconoscono mai luoghi famosi e stereotipati dell’isola, la percezione è quella di un impalpabile imprinting di Capri. «Le due parti dialogano tra loro grazie a un labile limite di riconoscibilità. L’umore di questi spazi si assomiglia a tal punto da diventare materia unica».

Se in queste due tipologie di immagini Jodice ha operato una scelta inconsueta nel contenuto, negando completamente gli spazi socio-urbani molto ampi ai quali ci ha abituati, nelle immagini che vanno a completare l’allestimento – formando dei veri e propri trittici – il fotografo presenta una tipologia di lavoro che porta avanti da alcuni anni. Le rappresentazioni sono «pagine di giornale da cui si estrapolano parole o brevi frasi, totalmente avulse dal contesto, spesso anche inquietanti. L’intera pagina è ricoperta di pece nera da cui emerge solamente questa piccola frase che va a completare come “una scheggia di pensiero” l’allestimento della mostra».

Viene espressa in questo modo la posizione «ottundente e contundente» del fotografo nei confronti del periodo attuale. Per Jodice la pratica dell’artista è una poetica civile e il suo ruolo è quello di un precursore che mette in discussione una serie di condizioni date. È forse questo l’aspetto che più lo ha avvicinato a Diefenbach che, oltre ad essere un pittore, è stata una figura sistematica rispetto all’epoca politica e sociale che ha vissuto, andando spesso in conflitto con essa. «Non aderisco completamente al suo pensiero, ma di certo condivido il suo modo di fare arte e di pensare all’artista come un ostruzionista e non come un facilitatore di condizioni sociali, ma al contrario come uno stratega che si mette di traverso».

Questo è l’omaggio di Jodice a Diefenbach. Un omaggio che affonda le radici nel vissuto privato del fotografo che ha un rapporto del tutto personale con Capri. L’isola fa parte dei suoi ricordi d’infanzia, così come Diefenbach “incontrato” in tutta la sua tenebrosità mentre da bambino percorreva con la famiglia le stanze della Certosa. E la visione e rappresentazione di una Capri intima, lontana dal comune sentire, quasi vernacolare è quello che accomuna i due artisti.

Spiega Jodice: «L’epicentro della mia vita sull’isola era Anacapri, era quindi una vita periferica». E questa periferia è quello che scaturisce dalla visione delle opere dalle quali si respira un profumo riconoscibile di Capri, senza mai riconoscere un luogo nella sua interezza. «Una delle cose che ho cercato di raccontare è che all’interno dello spazio geografico limitato, compresso, limitatissimo dell’isola non si incontra solo una storiografia culturale, letteraria e politica ma anche geografie, nature, altimetrie, paesaggi e biodiversità differenti».

Tutto questo insieme ha contribuito a rendere il Mediterraneo in generale e Capri in particolare un crogiuolo interculturale, interraziale e intersociale unico nel mondo. Con questo approccio è stata fotografata l’isola, con un uso fedele del colore, senza mai alterare l’immagine con il digitale, ma “deformandola” solo con le possibilità concesse dalla fotografia. Ecco allora comparire nelle sale della mostra immagini scattate in notturna sovraesponendo la luce per far in modo che la notte divenisse chiara e per mostrare quei colori impercettibili all’occhio umano, ma catturati dalla macchina fotografica.

«Confrontandomi con un paesaggio così ricco di significati – spiega Jodice – ho cercato di lavorare su tutto ciò che questo luogo ha rappresentato e rappresenta, in particolare la potenza evocativa. Non è un caso che la più importante casa privata del mondo sia stata costruita a Capri perché cos’altro sono i telai delle finestre di villa Malaparte se non cornici su paesaggi irripetibili e senza confini? Alcune mie fotografie in mostra hanno ragionato proprio sul senso e sulla forma dell’orizzonte».

 

Le visioni di Barbieri

Il paesaggio e le sue trasformazioni sono al centro dell’interesse artistico di Olivo Barbieri, fotografo emiliano affascinato dalle rappresentazioni aeree che mettono a fuoco l’alternarsi della natura e dei centri urbani. E proprio dall’alto ha fotografato Capri mostrandola come pochi hanno avuto la possibilità di vedere. L’altezza dona all’immagine la forza documentaristica del luogo arricchendo la conoscenza di profondità figurativa. La tecnica “tilt-shift lens”, firma artistica di Barbieri, l’ha reso famoso in tutto il mondo. Al limite tra il reale e il virtuale le immagini mostrano spazi metropolitani che sembrano dei plastici visti dall’alto. Così è stato per Capri. La messa a fuoco di una sola parte dell’immagine favorisce l’estraniamento dello spettatore che non comprende più dove finisce la realtà e comincia la finzione. Una prospettiva del tutto nuova dell’isola che è stata fotografata in tutti i modi, sia da artisti che da amatori, ma che non ha mai reso un effetto così spettacolare!

 

 

Omaggio a Karl Wilhelm Diefenbach

Una nuova proposta sul linguaggio della fotografia contemporanea è il filo conduttore del Festival della Fotografia promosso e organizzato dalla Fondazione Capri. Una doppia produzione fotografica vede coinvolti due artisti di primo piano, Francesco Jodice e Olivo Barbieri, in un’iniziativa di site specific dedicata a Capri e alle suggestioni delle pitture di Karl Wilhelm Diefenbach conservate ed esposte nel museo a lui intitolato presso la Certosa di San Giacomo. Il progetto è nato dalla collaborazione con la Soprintendenza speciale per il patrimonio storico, artistico, etnoantropologico e con il Polo Museale della Città di Napoli in occasione della commemorazione dei 100 anni dalla morte dell’artista. La mostra “Suggestioni capresi, 100 anni dopo Diefenbach” è curata da Denis Curti.

Certosa di San Giacomo. Dal 24 agosto al 20 ottobre. Ingresso libero dal martedì alla domenica dalle 10 alle 14 e dalle 17 alle 20.

 

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