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L’isola nel bicchiere

Falanghina, greco e piedirosso. È con queste uve che nascono i vini Capri doc

di Luciano Pignataro

 

 

 

 

Tiberio il Giusto amava il vino di Capri e giudicava quello di Sorrento «mediocre aceto». Qualche secolo dopo quel perdigiorno di Norman Douglas lo insultò come solo lui sapeva fare quando era in preda ad una delle sue crisi isteriche: «Nell’interesse sia del paesaggio che la viticoltura sta rapidamente distruggendo, sia di quanti ancora bevono la nociva mistura di zolfo e aceto che si estrae dall’uva locale, c’è da rammaricarsi che la reputazione del vino di Capri sia durata oltre il suo limite legittimo e che la produzione del vero vino di Capri non possa essere lasciata in esclusiva ai distillatori del preparato napoletano relativamente innocuo che va sotto questo nome». Insomma, il riferimento è alla prima metà dell’Ottocento, l’isola era già diventata un marchio di garanzia e nella capitale c’era chi ne approfittava per concludere qualche buon affare turlupinando il cliente. Poi, come per Pompei e Paestum, è accaduto che la fama dei luoghi ha sovrastato il prodotto assegnandogli il ruolo di comparsa come souvenir usa e getta così come è da decenni consuetudine, da quando cioè i viaggiatori sono stati sostituiti dai turisti. La bottiglia di Capri, insomma, non è mai stata un oggetto del desiderio, un prodotto di charme da offrire, magari irraggiungibile e da comprare ad ogni costo, ma qualcosa da consumare alla buona nelle trattorie dell’isola o un sorso di sole da bere quando si è tornati in città. Eppure qualcosa di molto serio sta avvenendo, ancora nessuno lo sa ma la rivoluzione italiana del vino è arrivata anche qui. Le premesse al lavoro di Angelo Di Nardo e Roberto Mazzer, enologi da qualche vendemmia nelle due aziende isolane, le ha create Giovanni Leone, il Presidente che più di ogni altro ha amato l’isola di cui è stato non solo frequentatore ma anche fine conoscitore: fu lui infatti a firmare il 7 settembre 1977 il decreto istitutivo della doc Capri, a ben vedere una delle prime denominazioni di origine controllata della Campania. Noi sappiamo, per quelle strane astuzie della burocrazia italiana nata dal formalismo piccolo borghese sabauda e dal dispotisno paternalistico dell’aristocrazia borbonica e papalina, che un grande bicchiere non deve essere necessariamente doc o docg, spesso anzi un banale vino da tavola può far furore sulle guide specializzate come è avvenuto inzialmente con il Sassicaia o il Montevetrano. Però queste sigle (doc, docg e igt soprattutto) sicuramente garantiscono il consumatore e questo oggi è davvero molto importante per il vino di Capri costretto a subire, dopo essere stato immeritatamente esaltato nell’Ottocento, le insidie dei luoghi comuni nati nei salotti borghesi insipienti nei quali per cortesia nessuno contesta le sciocchezze in libertà. Come quella che il vino doc dell’isola non sia fatto con le uve del posto: eppure i duecento ettari vitati hanno una potenzialità di gran lunga superiore alle centomila bottiglie complessivamente prodotte dalle due aziende, La Caprense e la Vinicola Tiberio. Dunque basta con le cattiverie gratuite alla Norman, o almeno usiamole solo per il famigerato vino della casa servito in brocca ammiccante. Il disciplinare prevedere per il bianco uve falanghina e greco con una presenza di quest’ultimo mai superiore alla metà. Nel bicchiere ci può essere anche un 20 per cento di biancolella, il tipico vitigno ischitano mentre il rosso vuole solo piedirosso con una presenza minima di altri vitigni autorizzati in provincia di Napoli. La resa massima consentita per ettaro è di 120 quintali. La viticoltura vive i suoi fasti nelle zone di Migliera, Guardia e Damecuta nel comune di Anacapri, a Villa Jovis, Vervoto, Maruscella e Lo Fuosso nel comune di Capri. Alle falde del Monte Solaro ci sono le radici terragne e contadine dell’isola, la coltivazione è difficile perché le proprietà sono estremamente parcellizzate e, come in quasi tutta la provincia di Napoli, raramente sono più grandi di un ettaro, cioè niente. Non lontano da Marina Grande, in una delle poche zone pianeggianti, ci sono le altre vigne, più facili da coltivare con un problema di non poco conto: il sole va via presto, sin dalle prime ore del pomeriggio. Ecco allora la necessità di fare discorsi radicali e difficili: abbassare le rese per ettaro, cercare per quanto possibile di creare nuovi impianti moderni sapendo che qui la terra ha costi assolutamente proibitivi e le tentazioni sono davvero tante. Il primo produttore commerciale di vino, ci ricorda Marino Barendson in Addio Cicerchia, piccola storia della cucina caprese edito da La Conchiglia nel 1991, fu Gennaro Arcucci, un medico laureato a Salerno da cui Capri dipendeva amministrativamente, poi commissario bonificatore per conto della Repubblica Partenopea, il quale inventò le Lacrime di Tiberio, contrapposizione laica al Lacryma Christi, e il Tiberino. Tornati i Borbone, finì impiccato dopo aver marcito un anno in prigione. Bisogna aspettare un secolo, anzi di più, perché fu nel 1909 che il Cavaliere Carlo Brunetti fondò la Cantina Isola di Capri nel centro di Anacapri in un ex monastero delle Vergini Teresiniane Calzate costruito nel 1683. Nel 1925, rimasto unico titolare, Brunetti decise di ribattezzare l’azienda Vinicola Tiberio, oggi condotta dai nipoti Lino, Carlo, Salvatore e Maria Laura Brunetti. Da qualche vendemmia è nata la collaborazione con Roberto Mazzer e dopo il mitico Capri Blu sono nati nuovi prodotti in linea con le nuove tendenze produttive mondiali. Sulla stessa lunghezza d’onda l’altra azienda, La Caprense. La cooperativa, poco meno di una ventina di soci, ha avuto negli anni passati picchi di eccellenza ma poi ciascuno è stato assorbito dalla propria attività. Una situazione di stallo a cui per fortuna il giovane Giovanni Colavecchia ha scritto la parola fine chiamando Angelo Di Nardo a reimpostare tutta la linea produttiva. Oggi dunque siamo in una fase di transizione che lascia ben sperare: senza perdere la loro tipicità i bianchi dell’isola, che costituiscono l’80 per cento della produzione, si ammorbidiscono mentre i rossi acquistano grazie alle barrique e a una rinnovata attenzione al frutto quella complessità necessaria per uscire dall’anonimato. Provare per credere.

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